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Italiane, belga, tedesche, americane… Francesca Barzanti, in arte “I’ Barza”, le ha davvero provate tutte. Di ogni provenienza, di ogni colore, di ogni stile diverso. Una passione, quella per il mondo della birra artigianale, che nel 2014 ha deciso di condividere con gli altri, inaugurando il suo personale tempio della birra nella città di Firenze.

“Grand Cru Firenze”, in via Giampaolo Orsini, oggi è infatti molto più di un semplice Beer Shop. Piuttosto un punto di riferimento e di ritrovo, in cui il proprietario è (o diventa) amico, confidente e consigliere di fiducia per guidare ogni cliente, dai più affezionati fino ai novellini nel campo della birra, verso la migliore soluzione possibile. Con scaffali in continuo fermento, proprio come le creazioni nazionali e internazionali che ospitano, e la conseguente possibilità di scoprire – settimana dopo settimana, mese dopo mese – le nuove tendenze craft e non solo.

“La mia passione per la birra è nata nel lontano 2003-2004 grazie al mio miglior amico Edoardo, che cominciò a farsi le birre in casa con un kit comprato da Birramia. In poco tempo ci trovammo così insieme a casa sua per brassare le nostre prime birre autoprodotte. A posteriori, lo devo dire, spesso con risultati terribili…”, esordisce sorridendo lo stesso Francesco Barzanti nell’intervista concessa a Beverfood.com mentre ci fa assaggiare una Bastarda Rossa con castagne del Monte Amiata. “Nel 2006 lo stesso Edoardo mi ha coinvolto nella nascita di un’associazione culturale birraria, la ‘Pinta Medicea’, con cui tenevamo corsi e facevamo eventi di vario tipo. Tutti, ovviamente, a tema birrario. Nel 2008 ho abbandonato la ‘Pinta Medicea’, che mi ha dato tanto in termini di crescita culturale birraria, e mi sono trasferito a Glasgow in Scozia. Qui, dopo una pausa di un annetto, ho ripreso la produzione di birra fatta in casa assieme alla mia collega Jodie”, ripercorre i suoi primi passi nel settore brassicolo.

Come sei passato dall’autoproduzione all’inaugurazione del tuo Beer Shop?
“Una volta tornato a Firenze nel 2011, ho continuato con l’autoproduzione finché, vuoi per il poco tempo a disposizione vuoi (parecchio) per le arrabbiature della mia ragazza dell’epoca a causa della confusione che facevo con pentole e pentoloni, ho smesso di farmi la birra in casa e, nel dicembre 2014, ho deciso di aprire il mio Beer Shop. Avevo realizzato d’altronde che il consumo di birre di qualità mi stava costando molto di più che aprire un negozio (ride, ndr). Ci ho provato per tre anni e alla fine ce l’ho fatta, lanciando il mio ‘Grand Cru Firenze’, il secondo Beer Shop della nostra città (il primo, ‘Firenze Birra’, era nato un anno prima in zona stadio, ndr) e riuscendo finalmente a coronare il sogno di poter lavorare con la bevanda che più amo. Come dico sempre con orgoglio e ironia, sono riuscito a fare dell’alcolismo una professione!”.

Qual è stata la birra (o lo stile di birra) che ha funzionato di più in questi anni?
“Beh, scegliere la birra più richiesta è estremamente difficile visto che, come in tutti i campi, le mode influenzano molto le scelte dei consumatori, soprattutto di quelli più giovani. Posso però affermare che la maggior parte dei miei clienti si indirizza verso birre in cui predomina il luppolo. Sicuramente il fenomeno IPA continua a imperare, da noi come nella maggior parte del resto del mondo, eccezion fatta per quei pochi paradisi poco contaminati da bevande straluppolate, costituiti in particolare dai Paesi con una grande tradizione birraria. Penso soprattutto al Belgio e alle zone franco-boeme del centro Europa. Quindi, riassumendo, non posso darti un nome preciso di una birra ma, tra gli stili, le IPA – con tutte le loro variazioni – sono in assoluto quelle più vendute nel mio negozio. Anche se, grazie a Dio, non mancano i cultori dei grandi classici belgi, tedeschi o inglesi”.

Qual è invece la birra più bizzarra che hai venduto o hai tuttora in vendita?
“Di birre bizzarre in questo momento storico ce ne sono a bizzeffe, con gli ingredienti più strampalati che ti possono venire in mente. Purtroppo, talvolta la birra si presta infatti a sperimentazioni con gli ingredienti più inusuali. Certo, poi è importante capire quali hanno uno studio serio dietro e quali sono esclusivamente frutto di un marketing dove il ‘lo famo strano’ è la filosofia principale del birrificio. Per fare un esempio: la birra col sale esiste da secoli e, se se ne assaggia una, magari realizzata proprio a Goslar dove nasce questo stile specifico, o magari una qualsiasi interpretazione italiana ben fatta (e ne abbiamo veramente molte), si può capire come il sale sia un ingrediente che si integra perfettamente con una birra di frumento. Oppure pensiamo al primo stile considerato di stampo prettamente italiano, le IGA (Italian Grape Ale), birre – alcune veramente buone – con una percentuale di mosto di vino. Poi, invece, ci sono quelle birre che devono solo stupire, tralasciando molto, se non del tutto, la parte sensoriale effettiva. Basti pensare che io stesso in passato ho avuto una birra con ‘soldi e pizza’ annoverati fra gli ingredienti, una con la barbabietola, una col basilico, una con batteri estratti dalla barba del birraio (no, non scherzo)… Credo che il culmine si sia raggiunto però qualche anno dopo, con una birra fermentata dai batteri lattici estratti dalle parti intime di una modella cecoslovacca. Non so se poi sia mai stata messa in commercio e, sinceramente, mi interessa anche il giusto. Fate vobis”.

Quanti Paesi diversi rappresenti con le birre selezionate per il tuo negozio? Prediligi più quelle italiane o quelle straniere?
“Nel mio piccolo negozio ho una buona rappresentanza di birre italiane perché credo fortemente che noi italiani, quando ci mettiamo di impegno, siamo veramente bravi a fare le cose, soprattutto se si tratta di produzioni gastroalimentari. Ho dei birrifici italiani prettamente belgiofili, qualcuno di stampo più alemano-boemo e tanti forti con prodotti molto luppolati che poi, come già detto, sono anche quelli più richiesti. Onestamente, ritengo che il livello delle birre italiane di qualità si sia alzato veramente tantissimo negli ultimi 15 anni. Arrivo a dire addirittura che alcuni nostri birrai sono di caratura internazionale e, a riprova di ciò, è sufficiente considerare il numero di medaglie che ogni anno portiamo a casa in tutti gli stili nei vari concorsi. Quindi perché non bere italiano? C’è poi una buona selezione di etichette classiche dal Belgio, dalla Germania e dalla Gran Bretagna, con qualche scaffale lasciato per il Nord Europa e qualche altro alle novità che reputo siano da provare, magari dall’Est Europa, dall’America o da altri diversi Paesi. L’importante è che le suddette birre siano state conservate bene durante il trasporto, per quanto possibile ovviamente. Proprio a causa di questo motivo, non sapendo come sono state tenute e il conseguente stato in cui mi arriverebbero, a volte preferisco non rischiare e affidarmi a birrifici italiani più vicini, quelli che so come lavorano e che rappresentano una garanzia di qualità e professionalità”.

Chiosa, inevitabile, sull’attualità: quali effetti hanno avuto emergenza globale e restrizioni varie su un’attività come la tua?
“Grazie al cielo io lavoro quasi esclusivamente con amici. Gli stessi clienti che vengono per la prima volta e rimangono ad assaggiare qualcosa spesso poi si uniscono infatti alla combriccola. Difficilmente in questi sei anni ho trovato un cliente abituale con cui non uscirei anche a bere una birra in un pub dopo lavoro. Non lo dico tanto per dire. Ho avuto molta fortuna, di sicuro, ma sono anche vere due cose: la prima è che sono un chiacchierone che sta bene in compagnia e la seconda è che questo tipo di bevanda aiuta molto a socializzare. La birra artigianale, anche e soprattutto per il prezzo che spesso ha, tende a eliminare naturalmente tutte quelle persone che non hanno cultura del bere bene. Diciamo che per chi vuole bere solo per il gusto di farlo esistono prodotti di qualità inferiore che però costano molto meno e sono di conseguenza facilmente accessibili a chiunque. Per tornare quindi al discorso del feedback di questo ultimo anno, come dicevo gli amici mi hanno salvato. Non nego che sia stato un anno difficile per tutti, chi più o chi meno, ma sicuramente un anno di grossi cambiamenti. Ci siamo dovuti adattare a un nuovo contesto e non tutti ne avevamo la possibilità. Penso soprattutto ai locali nel centro storico di Firenze che hanno sempre fatto leva su una forte componente turistica. Ora che il turismo è bloccato, con orari sempre più ridotti, coprifuochi e restrizioni varie, con affitti altissimi da pagare oltre alle spese di normale amministrazione che qualunque attività ha e che già in periodi più tranquilli erano comunque troppo alte, stiamo veramente rasentando l’impossibilità di fare il nostro lavoro. Mi auguro solo che chi di dovere ne prenda seriamente atto e faccia qualcosa perché la situazione è divenuta insostenibile. Questa è un po’ la fortuna di lavorare con le persone del luogo piuttosto che con stranieri. Prima della pandemia, chiunque ti avrebbe detto che se volevi fare i soldi dovevi aprire un locale in centro e lavorare con i turisti. Dopo tutto questo trambusto si è invece visto come, talvolta, i clienti abituali del posto possono salvarti con ordini a domicilio, consegne e acquisti in loco, quando possibile”.

Hai aperto anche tu al servizio delivery?
“Sì. Nel primo lockdown nazionale, quello più duro in cui tutto era chiuso e le strade erano deserte perché non potevi circolare se non con motivazioni valide, io ho fatto soprattutto consegne a casa, facendomi anche 40 minuti di macchina pur di accontentare il cliente. È stata un’esperienza molto strana: da un lato ti godevi la città e la campagna prive di gente, senza traffico e con una calma quasi surreale. Dall’altro, però, ti rendevi conto che la situazione era grave e, per quanto potesse piacerti la tranquillità, ti prendeva così un certo magone allo stomaco. Mi chiedo, se non avessi avuto tutti gli amici che mi hanno sempre sostenuto anche durante i periodi più bui, che fine avrei fatto oggi… Probabilmente sarei a bere birra scadente facendo un lavoro che non mi piace. Diciamo, mi piace ripeterlo, che sono stato fortunato”.

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