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L’indomani della Festa della Liberazione, la più importante della Storia, è tempo di togliersi di dosso l’oppressione contemporanea del lockdown. Torna la zona gialla, e riaprono le attività di ristorazione, almeno quelle dotate di spazi esterni. Ma è stato fatto il massimo possibile?

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Figurarsi se si ha voglia di fare i pompieri con gli entusiasmi altrui; entusiasmi sopiti dall’incertezza, ben più pesante delle restrizioni, che da quattordici mesi aleggia su uno dei settori cardine dell’economia italiana. Il ritorno della zona gialla, per utilizzare le parole di chi governa, va inteso come una spinta propulsiva verso il ritorno alla vita, aprire per non chiudere più e tutto il rosario di promesse sentite e ripetute. E tutto sommato, alla luce di una situazione sanitaria che va migliorando ma rimane comunque sostanziosa, mai si dovrebbe voltare le spalle alla possibilità di tornare quantomeno a calcare i palcoscenici dei propri locali, anche se con le contingenze ormai note. Dare respiro al cassetto e alla vita sociale è una buona prima marcia, in vista dell’accelerata che si spera arriverà a breve.

È innegabile si debba quindi essere fiduciosi, ma allo stesso modo non si può non osservare un’ennesima dimostrazione di inadeguatezza gestionale, nella stanza dei bottoni (o nella cabina di regia, che tanto piace a quelli bravi che scrivono anche la reazione è da applausi e altri titoli da Pulitzer): le linee guida diramate per la ripartenza sembrano a tratti prive di buon senso vero e proprio, una lacuna che conferma peraltro la sensazione di ignoranza (nel senso che si ignora) che serpeggia ai piani alti, quando si parla del mondo dell’ospitalità. Del quale fanno parte anche alberghi, catering e banchettistica, eventi e simili, bellamente non coinvolti nell’ultimo decreto ministeriale.

Navigli a Milano (foto ansa)

La decisione relativa ai dehòrs, gli spazi all’aperto a disposizione di bar e ristoranti, è parsa ai più quasi tardiva: che la trasmissione del contagio si riduca prossima allo zero, in condizioni di spazi aperti, è noto già da qualche tempo, tanto da aver sollevato dubbi non banali nella comunità scientifica circa, ad esempio, l’obbligo di mascherina all’aperto: per un’analisi accurata e degna di estrema fiducia circa questo e altri argomenti che toccano anche la ristorazione, si rimanda allo straordinario lavoro dei dottori Paolo Spada e Guido Silvestri, che divisi tra Italia e Stati Uniti portano avanti una strepitosa campagna di informazione e divulgazione attraverso i loro canali di “Pillole di Ottimismo”, corredati da statistiche, slide, commenti e tutto quanto sarebbe servito fino dall’inizio.

Spazi all’aperto che sono a disposizione, va da sé, di una quantità comunque parziale di attività: quelle prive, non ripartono. Sarebbe bastata una riga in più, nella quale magari si autorizzava ad appropriarsi in via temporanea di tot metri di spazi di parcheggio antistanti al locale, per poter garantire una riapertura a un numero ancora più ampio di locali, ma nulla. Per non parlare della quasi intuitiva necessità di garantire concessione di suolo pubblico a titolo gratuito (sia chiaro, in assenza di ristori economici adeguati, è sempre quella la chiave), ma anche in quel caso, silenzio. Anzi, l’iter burocratico per ottenere una fettina di marciapiede è fedele specchio di un sistema pachidermico. Sarà ridondante segnalarlo, ma le concessioni, che poi concessioni non sono, semmai restituzioni fatte agli imprenditori sul fronte delle aperture, perdono una significativa parte di importanza se non sostenute da diminuzioni sul versante opposto: quello della pressione fiscale, delle utenze, degli affitti, che sono rimasti quasi del tutto serenamente invariati.

Il coprifuoco è naturalmente l’elefante nella stanza (superba espressione inglese, lingua dal quale dovremmo forse sforzarci di prendere in prestito qualcosa di meglio rispetto a forwardare, disruptive, guest shift), coronato peraltro da un dibattito a distanza tra ministri, i primi a capire il giusto di questa realtà a macchie, più che a colori. Ai ristoranti viene di fatto garantito un solo giro, e anche un tantino di fretta, per poter riempire i tavoli già distanziati e sanificati: ci starebbero probabilmente alla grande i famigerati banchi a rotelle, giusto per non far mancare niente e gridare a una tombola di esperimenti non propriamente riusciti. In definitiva è mancato coraggio: riaprire meglio, non per forza di più, sarebbe stato possibile eccome, soprattutto se le disposizioni previste per altre attività commerciali parlano una lingua completamente diversa da quella imposta alla ristorazione. Che differenza c’è tra una coda al supermercato, o in un qualsiasi negozio, e quattro tavoli distanziati al chiuso? 

Le reazioni dei professionisti del settore sono state comunque ancora una volta ligie e propositive, come in realtà il paese quasi non meriterebbe: bar storicamente abituati a fare grandi numeri esattamente nel lasso di tempo vietato dal coprifuoco, si sono reinventati per accogliere gli ospiti a partire da orario di pranzo. Il Suzy Martini Bar, Iter e il Raboucer, a Milano, hanno comunicato orari continuati dal mattino fino alla chiusura; realtà ben affermate come il MaG sui Navigli, il boutique cocktail bar di Luca Marcellin, il Drinc., e in generale tutte le insegne da bere in stile classico hanno invece anticipato l’apertura di un paio d’ore, per garantire servizio già dal primo pomeriggio. Lunga è la lista di chi riaccende i motori, per fortuna, seguendo ovviamente il credo della responsabilità, e dal novero dei nomi vanno esclusi i furbi e gli irrispettosi. Chi lavora bene, sempre e da sempre, è in realtà il filtro naturale per tutte le dinamiche che i miopi fautori delle chiusure sbandierano di star risolvendo: un bar o un ristornate di qualità è un faro sulla piazza, che da solo basta a evitare violenze, sporcizia e negatività che invece stanno dilagando grazie a venditori abusivi e controlli non all’altezza.

Quindi, spazi esterni concessi ma non garantiti, impossibilità di lavorare al chiuso quando dall’altro lato della strada i megastore scoppiano di persone; nessun aiuto, o quasi, sul piano economico-fiscale; chiara incompatibilità del coprifuoco con gli orari di lavoro, quando poi le strade rimangono gremite di consumatori ineducati (o semplicemente esausti da un anno di costrizione). Ma anche la possibilità di ospitare di nuovo i propri clienti abituali, riascoltare la musica del bancone, riprendere a condividere momenti troppo a lungo sopiti. È una minuscola ripresa, ma come dicevano in un leggendario film di Mel Brooks (siamo appena usciti da una storica Notte degli Oscar), potrebbe piovere. Anche se a guardare le previsioni meteo…

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