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Unire tradizione e innovazione sembra essere diventata una delle cantilene imprescindibili nella comunicazione dell’enogastronomia, specie quando marchi o realtà storiche si rifanno il trucco. L’ammodernamento finisce però con il rimanere chiuso tra le parole, troppo spesso molto meno nei fatti; DaDa in Taverna, a Milano, riscrive finalmente il concetto.
Palazzo Morigi ha già da un po’ scavallato il secolo di storia, a fare da quartiere tra l’omonima stradina e uno dei più pittoreschi incroci della vecchia Milano. Le chiamano le cinque vie, il gomitolo di arterie che si dipana lungo quello che era una volta il cuore della Mediolanum romana (capitale dell’Impero dal 286 a.C. con Massimiano, al 402 d.C. con Onorio che sposta la corte a Ravenna). Le rovine del Palazzo Imperiale sono a due passi, mentre girati un paio d’angoli si arriva a quelle del vecchio Circo; Palazzo Morigi è stato teatro di movimenti sociopolitici vibranti (occupato per quasi un quarantennio da un collettivo giovanile) e soprattutto della leggendaria Taverna Moriggi.
Generazioni di universitari la ricorderanno come una delle pochissime insegne illuminate fino a tardi, pronta a dare ristoro (tradizionale, eccome) anche a sera inoltrata spadellando risotti e costolette alla vecchia maniera. Era uno spiazzo movimentato e vivo, all’ingresso, praticamente opposto alla quiete cristallina che si vive oggi, passeggiando all’ombra della Torre Gorani, una delle ultime testimonianze medioevali della città che fu. La Taverna è stata, fin dal 1900, immobilizzazione dell’osteria, esempio di quella proposta storica, uguale a se stessa e per questo a lungo sempre valida, di cui oggi si va anacronisticamente alla ricerca.
Era tradizione, certo. E da questa hanno senz’altro attinto Paolo Anzil e Davide La Grotteria, chef già sodali al Cenerè in Cadorna (oggi chiuso), che dal 2021 hanno iniettato un altro piglio d’ospitalità ricercata e ovattata tra queste stesse pareti, adesso dipinte di blu brillante, per interpretare a modo loro questo spazio simbolo; richiami al dadaismo, va da sé (dada è anche la prima parola esclamata dalla figlia di La Grotteria) e alla doppia anima di ristorante e cocktail bar, comfort e sperimentazione, solito e insolito. Al piano interrato, la taverna vera propria, si alternano serate di divulgazione e competizioni di poesia. Non hanno innovato, hanno appreso e riproposto, ed è ben altro. Bastano quattro piatti e quattro miscele, in un percorso di degustazione tanto breve quanto intenso: quattro alternative che raccontano tutto quello che ci si aspetterebbe, nascondendo però un segreto impossibile da presagire. E funzionano alla grande.
C’er(v)a una volta (coscia di cervo scottata, salsa teriyaki, liquirizia e funghi, insalata riccia, giardiniera di pere alla rosa canina) sembra un richiamo al viandante che si ferma per mangiare quello che trova pronto; carne che si taglia con un soffio, un abbraccio d’intingolo e profumo. Si torna indietro nel tempo, con gli ingredienti di oggi e forse anche di domani. Eureka! è un risotto come tanti e come nessun altro: Vialone nano, ossobuco alla milanese, astice. È tradizione con l’abito contemporaneo, è novità che sa d’antico. Poche parole (e pochi morsi, carico com’è di sapori che richiamano l’assaggio in continuazione), moltissima tecnica a tenere tre materie di cottura importante così ben assemblate. Poi la Torta della nonna, come quella che ricordiamo ma che non abbiamo mai provato: crema catalana limone e lime, pasta sigaretta ai pinoli e gelée di limone salata. La Mostarda di kumquat fatta in casa, potentissima e anacronistica, è la chiusura perfetta.
Al fianco di piatti di goduriosa semplicità e al tempo stesso sorprendente ricercatezza (ma va benissimo anche invertire gli aggettivi), dal banco bar scorrono proposte miscelate che si ispirano chiaramente ai classici di inizio Novecento, mantenendone la struttura ma cambiandosi d’abito in chiave più contemporanea, e perché no, complessa. I vari Manhattan, Mojito, Vieux Carrè, Vesper Martini si tuffano in una macchina del tempo e si rivedono nei Trip Trap (Barcelò Organic Ron, cordiale di funghi Shitake, Vermouth rosso Umami Garbta, LemongrassBitter), Gremolito (Rum Havana 3, Mastiha, lime, zucchero, prezzemolo e rosmarino), Calvarios (Calvados, mezcal, Vermouth Cocchi, liquore di castagne, soluzione salina, Angostura bitter, bitter liquirizia) e Meneghini (Snow Leopard Vodka infusa al formaggio grana, Plymouth gin, Vermouth dry, bitter allo zafferano). La tradizione, in fondo, è una novità riuscita bene: piuttosto che rincorrerne una nuova variante, si potrebbe costruire da quello che insegna. Lasciandola stare, e usandola come maestra. Come da DaDa.
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