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La valorizzazione di un territorio e dei suoi prodotti parte dalle basi. E per una volta non si parla di ingredienti, temperature o dosi: ad Avellino, dove il vino è un’eccellenza che si perde nei secoli, la cultura enologica si insegna a scuola, una delle più antiche e prestigiose del settore. 

Francesco de Sanctis

All’epoca esisteva una sola realtà del genere in tutta la (giovanissima) nazione: la Scuola Enologica di Conegliano Veneto, che negli anni’80 conferì il diploma anche all’attuale Governatore del Veneto Luca Zaia. Cavalcando il furore progressista del Rinascimento, l’irpino Francesco De Sanctis fu nominato Ministro della Pubblica Istruzione e nel suo terzo mandato fondò, nel 1879, l’Istituto Tecnico Agrario di Avellino, a lui intitolato e oggi una delle punte di diamante della ricerca enologica locale e nazionale.

Il ministro “ritenne in quel periodo di fondare una scuola agraria per dare valore alla viticoltura del territorio”, racconta Pietro Caterini, dal 2014 a capo del corpo docenti. “Fu un progetto lungimirante che oggi vede i suoi frutti: De Sanctis intravide in questa accademia  la possibilità di tramandare le conoscenze scientifiche necessarie per ottimizzare la produzione locale”. L’Irpinia è terra ruvida e buona di abitanti dal carattere vero, forgiati da sapere secolare e dalle vicende nelle quali si sono ritrovati coinvolti: il pauroso terremoto del 1980 è stato spartiacque nelle vite di molti, inclusa quella dell’Istituto, che per riprendere l’attività necessitò di fondi governativi ed enorme contributo da parte degli studenti e dei cittadini stessi.

Pietro Caterini – Dirigente Scolastico

L’orgoglio di far parte di una tradizione di qualità e storia come quella del vino irpino traspare fiero anche nel raccontarsi: “Noi oggi abbiamo ereditato il privilegio di poterci dedicare al vino e alla sua scienza, e tentiamo di fare innovazione e ricerca”. L’Istituto è uno dei fari del concetto di agricoltura 4.0, un lavoro di precisione che “significa digitalizzazione e ottimizzazione dei processi agricoli, con droni, strumentazione multimediale. Ci interessiamo della microvinificazione, lo studio dei processi enoici nello specifico. E abbiamo un progetto estremamente ambizioso, il Digital Innovation Hub, che potrebbe essere il primo del suo genere in Italia”. Il DIH, come viene affettuosamente chiamato da chi suda e si spende per poterlo perseguire, è una visione che comprende tutto il settore agroalimentare su scala regionale (e in ottica nazionale), e mette l’istituto al servizio delle imprese, degli enti, delle associazioni, dei privati. Il “De Sanctis” mira quindi a diventare il centro nevralgico, con la propria struttura e le competenze infuse ai propri studenti, dell’agricoltura sostenibile e dell’economia circolare della zona.

La scuola in sé sembra un minuscolo universo votato allo studio e alla produzione, un quartierino scientifico dove ogni aspetto di vite e vita viene declinato nel profondo. A partire dal percorso accademico vero e proprio, che accoglie circa cinquecento allievi: un biennio comune che poi di dirama in tre articolazioni: viticolo enologico, produzione e trasformazione e gestione ambiente e territorio. Dopo il diploma è possibile ottenere una specializzazione enotecnica, verticale sull’utilizzo di macchinari enologici, pressoché unica in Campania (ne esistono dieci simili in tutta Italia): “Copriamo praticamente tutto il settore agroalimentare e ambientale, oltre a insegnare ovviamente materie propedeutiche alla formazione personale degli studenti, dall’italiano all’informatica. I nostri ragazzi conseguono un diploma finito, per poter poi abilitarsi a perito agrario e svolgere attività professionale”.

La Gamma

I diplomati possono ovviamente anche accedere all’università, oppure, e questa è una delle chiavi della bontà del progetto, diventare imprenditori agricoli: “Abbiamo insegnamenti di economia e diritto sin dal biennio, come quelli della professoressa Luisa Santucci, che garantiscono agli iscritti una preparazione completa in ottica imprenditoriale. Le conoscenze e le competenze ottenute al De Sanctis possono essere sfruttate per richiedere i fondi del  Programma di Sviluppo Rurale (PSR) europeo”. Bruxelles vede infatti con enorme favore gli investimenti in agricoltura e allevamento, specialmente in prospettiva della sostenibilità che negli ultimi anni è progressivamente decollata negli indici di attenzione istituzionali: si pensi ad esempio che la dotazione per il settennato 2014/2020 prevedeva 99,6 miliardi di euro, che si affiancavano a 50,9 miliardi erogati dagli Stati membri come cofinanziamento, e ulteriori 10,7 miliardi stanziati dagli Stati membri a titolo volontario, oltre ai 50,9 miliardi precedenti. Una vagonata di incentivi e carburante per i sogni dei più giovani.

Oltre ai banchi (e a un convitto che può ospitare fino a quaranta studenti), però, il De Sanctis vive del proprio terreno. Ventiquattro ettari annessi alla scuola, votati alle eccellenze del suolo locale come Fiano DOCG (usato anche per un eccellente passito), Greco di Tufo IGP, Aglianico IGP, senza per questo chiudersi di fronte ai tesori di tutta Italia, sia per varietà che per metodo: “Abbiamo una collezione ampelografica di vitigni italiani, filari con proposte non autoctone come Chardonnay, Merlot, Sciascinoso, Verdicchio. Fino a trent’anni fa producevamo un Fiano metodo classico, oggi ci concentriamo sulla rifermentazione in autoclave e facciamo anche uno spumante rosè di Aglianico”. A disposizione della scuola ovviamente una cantina, e una bottaia dove viene invecchiato l’Aglianico, che da disciplinare richiede almeno tre anni in rovere per evolversi nel mitico Taurasi. Lo stesso vitigno è usato per una chicca brillante, un mosto cotto con bollitura con mele cotogne, e c’è ancora spazio per un gioiellino da cornice: “Abbiamo anche una distilleria, dove produciamo il Brandy Avellino. Fino al 1950 era denominato Cognac Avellino, poi i francesi li conosciamo…”.

I vigneti (foto nuovairpinia)

La produzione annua si assesta sulle ventimila bottiglie, un numero contenuto se comparato con grandi aziende, ma strepitoso se contestualizzato con la vita degli studenti, che si occupano del vino in tutto il suo ciclo d’esistenza: “Fino a vent’anni fa parlavamo di ambiente e salute in maniera distratta, oggi sono invece elementi alla base dello sviluppo mondiale, e hanno dato nuovo impulso a istituti come il nostro. C’è sempre più richiesta di vino di qualità, che comporta continui aggiornamenti e studi nel settore, e noi siamo in prima linea. I vigneti non si lavorano più come una volta, ai ragazzi trasmettiamo molta più inclinazione scientifica (monitoraggio con sensori, report automatici, computer per il meteo), ma sul rapporto sensoriale con il terreno non transigiamo: potatura e vendemmia sono sempre manuali, è l’unico modo per valorizzare un prodotto così eccellente, autentico vanto della nostra regione”. Le due fasi di vigna e cantina sono completamente svolte dagli alunni, supervisionati da assistenti e docenti.

I prodotti dell’Istituto sono distribuiti in rivendite locali, sul sito dell’enoteca della scuola (www.enotecadesanctis.it) e tramite il canale Horeca, raggiungendo ristoranti della regione. Quanto basta per autofinanziarsi in buona parte e registrare anche degli utili, che “vengono completamente reinvestiti per macchinari, strumentazione e continui aggiornamenti didattici, nuovi percorsi per gli studenti”. Centoquarant’anni di lavoro, con addosso puntati i riflettori di una regione e di uno Stato che nella scuola troppo spesso non investe e su di essa invece dovrebbe costruire il futuro. E poi l’Europa e la scienza, e lo studio e il lavoro, tutti i tasselli della vita di un giovane, incollati con la soddisfazione, la passione e la fatica che solo il vino sa richiedere e regalare. “Abbiamo avuto studenti specificamente iscritti da Francia e Germania, un’alunna australiana. Due anni fa un nostro ragazzo giapponese ha concluso il percorso ed è tornato in patria: ci ha salutati in dialetto”. Chi cresce al De Sanctis alla fine lo porta con sè, al di là della superiore formazione professionale: un’esperienza che è forse l’unica cosa che questo Istituto non può spiegare a chi non lo vive.

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