Una leggenda vivente nel mondo del bar, Ago Perrone ha raggiunto la definitiva consacrazione con il primo posto nella classifica World’s 50 Best Bars. Un successo targato Italia con il team del Connaught Bar di Londra composto da tanti connazionali, sotto la guida del super tridente tricolore formato da Agostino Perrone, Director of Mixology, del pisano Giorgio Bargiani, Head Mixologist e Maura Milia, Bar Manager cagliaritana. Abbiamo fatto un tuffo indietro negli anni per raccontare la sua storia da copertina. Passione, talento, determinazione, professionalità e tanti sacrifici che hanno permesso al bartender classe’78 originario di Maslianico, un piccolo paese alle porte di Como al confine con la Svizzera, di raggiungere il tetto del mondo. Una storia da raccontare alle nuove e vecchie generazioni, un punto di riferimento per tutto il settore della mixology e orgoglio del bar made in Italy.
Raccontaci gli esordi a Como nel mondo del bar?
Tutto è cominciato per caso, anche se il caso non fa mai niente a caso. Ho iniziato a lavorare in un bar a Como per finanziarmi gli studi di fotografia, una delle più grandi passioni che mi porto dietro da sempre. Il mio primo lavoro è stato al bar Broletto in piazza Duomo a Como. Il classico caffè all’italiana, centrale, elegante, frequentato da una clientela di imprenditori e negozianti del luogo, con tante esperienze di vita, storie e viaggi da condividere. Il bar era già molto avanti per l’epoca, alla fine degli anni ‘90. Avevamo ingredienti esotici e internazionali che al tempo non si trovavano così facilmente, i limes, per dirne una, erano ancora un miraggio nella provincia, di conseguenza proponevamo cocktail più ricercati e moderni. È stata una prima esperienza magica, che mi porterò sempre dentro.
La scoperta del mondo dell’hospitality?
Lì ho scoperto a che punto mi piacesse il mondo dei bar e dell’hospitality. Non si limitava a ciò che servivi nel bicchiere, ma nell’esperienza che offrivi ai clienti, all’atmosfera che riuscivi a creare, alle relazioni, alle storie che si scambiavano. Dopo il caffè Broletto mi sono mosso in altri locali del comasco e della Lombardia. Sapevo di aver bisogno di un mentore che mi aiutasse a crescere, andare oltre le possibilità locali per incanalare la mia passione in un percorso e uno stile tutto mio.
All’Isola che Non C’è, ad Arcore, l’incontro con Simone Maci…
Simone è stato il mio primo mentore, con lui ho lavorato due anni e mezzo ed è con lui che è nato il sogno di venire a Londra. Mentre io sono rimasto, Simone è poi rientrato a Como dove ha aperto il Fresco Cocktail Shop e altre realtà che rappresentano ancora l’eccellenza sulla scena della miscelazione della città.
Lo sbarco a Londra e gli anni di lavoro nella city?
Londra rappresentava un grande sogno e un’ambizione. Volevamo allargare i nostri orizzonti, vedere cosa si facesse nei grandi bar della capitale, venire a contatto con le tendenze e l’innovazione dei bartender della città. Doveva essere un periodo, un’esperienza, ma per me è stata una scelta di vita alla fine. Era il 2003, a Londra cominciavano ad emergere i nuovi cocktail bar che avrebbero lasciato un’impronta. I primi anni ho lavorato in diversi bar. Primo di tutti Salvador & Amanda, il bar che mi ha permesso di conoscere molte persone e inserirmi nel network locale. Poi è stato il turno del Dusk, a Battersea, un bar indipendente molto creativo dove poter sperimentare e crescere prima di approdare al Montgomery Place. Sono stati anni in cui ho potuto dare ampio spazio alla creatività, trovare e affinare un mio stile e soprattutto venire a contatto con le grandi personalità da cui ho imparato molto e avuto grande supporto.
Come sei approdato al Connaught Bar?
Durante il periodo al Montgomery Place, sono cominciate le collaborazioni con brand, le cocktail competition e i premi come CLASS Bartender of the Year nel 2006, che mi hanno dato la visibilità e notorietà che mi hanno poi aperto la strada per il ruolo al Connaught. Ricordo ancora la proposta di unirmi al Connaught Hotel per la riapertura del loro storico cocktail bar. Ero di servizio al Montgomery Place e quasi ignorai Santino Cicciari che srotolò tutti i fogli del progetto del Connaught Bar sul bancone. Era una grande proposta, una grande opportunità, e quasi mi spaventava venendo da realtà molto indipendenti e creative. Non sapevo se sarei stato pronto o adatto al mondo dell’hotellerie di lusso.
Che cosa avete portato di nuovo?
Con il Connaught Bar abbiamo rivoluzionato tutto quello che i bar d’albergo erano stati fino ad allora. Abbiamo creato un concetto nuovo, aperto le porte a una clientela diversa che cercava innovazione, creatività, dei drink che avessero una storia e che stessero al passo coi tempi, con le novità che il settore della mixology stava introducendo, il tutto con un servizio impeccabile, che li facesse sentire speciali. Sono passati 12 anni e sebbene la sfida iniziale sia stata trasformata in un successo, il vero successo è riuscire a porsi nuove sfide di anno in anno, e non smettere mai di stupire.
Il segreto per rimanere in vetta così tanti anni?
Molti pensano che siamo nati arrivati, ma credo che non succeda nulla per caso. Mi sono rotto la schiena, ho incontrato le persone giuste nel momento giusto sfruttando ogni occasione, non abbiamo mai mollato di un centimetro e siamo entrati a gamba tesa cercando di migliorarci anno dopo anno, lavorando anche su semplici dettagli. Senza i sacrifici e la dedizione totale alla nostra missione il talento non basta, serve tanta umiltà.
La soddisfazione del riconoscimento World’s 50 Best Bars?
È un’emozione difficile da descrivere. Facciamo il nostro lavoro perché lo amiamo, lo facciamo al Connaught con lo stile che abbiamo creato perché è quello in cui crediamo. Siamo costantemente gratificati e riconosciuti per quello che facciamo ma questo premio è qualcosa di più. È come il traguardo di questi 12 anni e allo stesso tempo l’inizio di un nuovo percorso, di una nuova scalata verso un traguardo ancora più alto.
Una dedica per la vittoria ai World’s 50 Best?
E’ un premio che dedico alla mia famiglia che mi ha sempre sostenuto. Da mamma Pina che non mi ha fatto mai sentire il peso della mia assenza anche se sapevo quanto mancassi a casa, a papà Vincenzo scomparso recentemente che mi è sempre stato vicino con il suo modo di fare taciturno. Ci sono sempre stati e mi hanno aiutato quando hanno capito che questo per me non era un semplice ripiego, ma che stavo facendo seriamente. La dedica va anche a mia moglie Gaby, lei è messicana e lavora nel settore, ci siamo conosciuti a Londra, senza il suo supporto e la sua comprensione non sarei mai arrivato dove sono oggi.
Che momento sta vivendo Londra?
Siamo chiusi come tante altre realtà per il lockdown, facciamo solo un po’ di delivery con il ristorante. La situazione sanitaria anche qui è complicata, speriamo di poter riprendere a lavorare in sicurezza nel mese di dicembre che è molto importante con tanti ospiti dell’albergo che arrivano a Londra e vogliono respirare l’atmosfera di un quartiere elegante come Mayfair. L’estate era andata bene, c’erano delle vibrazioni positive dopo la prima ondata della pandemia. Guardiamo con fiducia al futuro quando tutto questo sarà finito, anche se ci sarà una selezione di molte realtà, le crisi portano a questo come già successo nel 2008.
Il legame con l’Italia e con la community di bartender.it?
L’Italia è il mio punto di partenza, le radici. Non mi dimentico da dove ho iniziato, tornare a Como è sempre emozionante. Grazie a Luca Pirola grande amico e pioniere del settore italiano e alle nostre iniziative sono riuscito a mantenere un legame molto forte con l’Italia anche da un punto di vista professionale. Con Luca abbiamo creato bartender.it nel 2004, insieme a Dom Costa e Dario Comini, per creare un ponte fra la realtà londinese e internazionale e la comunità di bartender e di professionisti del settore in Italia. Volevamo creare una piattaforma per connettere, condividere, ispirare e spronare alla crescita, creare un network che oltrepassasse i confini italiani. La mia esperienza e residenza a Londra rendeva il tutto più naturale. Negli anni siamo riusciti a dar vita ad iniziative ed eventi di grande portata in Italia ma anche a Londra. Grazie a bartender.it e ai seminari, alle classroom, sono riuscito a progredire più velocemente nel mio percorso personale e professionale. Spiegare, raccontare ciò che fai e perché lo fai aiuta definirti e vederci più chiaro, ad avere una direzione più precisa.
Torniamo alla tue origini, che potenzialità vedi per il settore sul Lago di Como?
Sono rimasto piacevolmente stupito dall’evoluzione della scena bar nella realtà comasca negli ultimi anni. Abbiamo delle realtà cittadine molto competenti e di qualità come il bar Hemingway e il Fresco Cocktail Shop e poi abbiamo i grandi nomi, come Villa D’Este e Villa Serbelloni, che rappresentano i classici, le eccellenze con servizio e prodotti top di gamma che mi auguro genuinamente mantengano sempre tale livello e reputazione. Ci sono anche nuove realtà che si affacciano, attratte da una rivalorizzazione del lago e del suo bagaglio culturale, paesaggistico e enogastronomico. Il settore turistico era in crescita pre-Covid, i visitatori che arrivano a Como hanno esigenze e aspettative di un certo livello. Mete come lo Sheraton, il Mandarin Oriental, il Grand Hotel Tremezzo, continuano a innalzare il livello del settore alberghiero, della ristorazione e dei cocktail bar della zona. Rappresentano un segno positivo per la nostra città e non solo per l’economia, ma in chiave turistica. Stiamo curando l’innovazione e l’eleganza senza rimanere legati ad un concetto di classicità ormai passata. Il contributo di questi stabilimenti influisce naturalmente anche sugli standard del servizio e dei prodotti del resto della zona. Per non parlare del riferimento e dell’ispirazione che dà al network di bartender locali, ma anche dell’atmosfera che crea per i locali e i turisti.