“Se due persone si incontrano in un bar, passano una bella serata e iniziano una relazione, sarà anche merito mio”. Ci aveva messo un minuto, quel matto di Francesco Galdi, all’epoca freschissimo vincitore della tappa italiana della Diageo World Class, a racchiudere in una riga cosa può significare essere un barista e che valore può avere il bar.
E oggi ci si ritrova, da imprenditori o da consumatori, a dover fare i conti con una realtà assurda e impronosticabile, e un futuro se possibile ancora più vago. Con i piedi sulla balaustra, l’intero settore dell’ospitalità guarda in giù in attesa di misure governative che diano respiro e speranza a quello che da sempre è uno dei motori trainanti del paese.
Le decisioni più importanti della Storia, in Italia a maggior ragione, sono spesso state prese con un bicchiere tra le mani, o suggellate da un brindisi propiziatorio. E si continua a brindare e bere, sempre meno e sempre meglio, per festeggiare, dimenticare, celebrare, ricordare. Questo, almeno, è un buon punto di partenza: un incantesimo che non finirà.
Non potrà mai finire. Non potrà mai svanire il bisogno atavico che abbiamo di essere anime in mezzo alle anime, di conoscere e socializzare, di scoprire nomi di persone e gusti e profumi. Non verrà mai cancellato il potere curativo di un bicchiere ben scelto e soprattutto ben dosato, al termine di giornate (e all’inizio di serate) interminabili.
Forse soltanto chi davvero si è giovato di uno sgabello al bancone, chi seduto da solo ha riscoperto passione e spinta, chi grazie al consiglio di un supereroe senza mantello ha assaggiato quel nuovo drink e diradato le nebbie di un periodo no; soltanto chi ha visto la propria vita, anche se in minuscola parte, salvarsi entrando in un bar, può capire.
Perché è faticoso descriverlo per bene: la voglia di buon bere è solo parte della ricetta, a cui si uniscono il languore di sorrisi, la fame di musica inspiegabilmente introvabile altrove, il bisogno di tirare tardi e una sporadica volta pentirsi e minacciare di non farlo mai più. Probabile che sia questo quello che si intende per “esperienza”.
Andate voi a spiegarlo a chi rimane ancorato a un’equazione adolescenziale che lega l’alcool alla sbronza, o un distillato a un energy drink, senza voler approfondire il bambinesco brivido che regala il tin-tin-tin del mixing glass a contatto con ghiaccio cristallino e perfetto, il delirio del sabato sera, l’adrenalina del last call.
Provate voi a descrivere la sequela di uhm che merita la fisica applicata alla qualità, tre strati d’alcool che si fondono in uno, acquistano struttura, scivolano leggermente densi attraverso uno strainer e prendono forma in una coppetta, in un tumbler, in un calice. Lisci o on the rocks, come dicevano nei film e non capivamo cosa volesse dire.
E cercate di immaginare cosa può voler dire tornare in un posto che si conosce e dove si è conosciuti, dove giustamente quasi mai questo si traduce in favori economici o privilegi, piuttosto vuol dire potersi fidare quando arrivano proposte per tentare novità, o sapere che dall’altro lato del mogano già sanno cosa si preferisce quando non si ha voglia di parlare.
Quella formula liquida in senso baumaniano, flessibile, incerta, magia che Luca Marcellin dice “non cambierà mai”. La matematica della vita quotidiana che ha nel drink solo l’ultimo dettaglio, e si compone di suoni e movimenti, del leggendario Benvenuti! di Agostino Galli, di pareti hipster o vintage o metropolitane o retrò, menu da emeroteca e osti d’eccellenza.
Evviva il delivery se ben fatto, perché permetterà alle attività di tenersi a galla, e lo si consideri anche per un futuro meno prossimo. Ma guai a pensare che una consegna a domicilio potrà mai sostituire la presenza fisica: come per il terroir di un vino pregiato, è l’insieme dei dettagli, dalle persone alla location, a rendere la bevuta ancora migliore.
Nulla potrà mai avvicinarsi al pellegrinaggio postmeridiano verso i templi urbani della spina staccata, le sinagoghe del miscelato, le moschee del flirt brillo. Il divano non potrà prendere il posto dello sgabello, il fai da te non sarà mai lontanamente vicino al fascino di un tovagliolino di carta come simbolo di benvenuto, o del sopracciglio di Cristian Lodi.
Frank Sinatra che gioca a dadi con le olive, Tom Cruise che (sacrilegio!) lancia e acchiappa bottiglie, “questo glielo offre il signore in fondo al bancone”. Pellicole che interpretano opere di scrittori a loro volta habituée dei bar più inarrivabili, come legati insieme dal filo invisibile della convivialità shakerata, mescolata, build.
Servono misure che scribacchini e baristi non possono far altro che teorizzare. L’ultima parola spetterà sempre a chi decide per mestiere: ma farà bene, questo chi, a ricordarsi delle porte scorrevoli della vita di ognuno, che si sono aperte o chiuse soltanto grazie al coraggio, alla sfrontatezza, alla saggezza in gocce bevute al bancone.
Lo stesso bancone, testimone silenzioso di aneddoti e segreti, che potrà voler vedere stavolta un cambiamento dall’interno. I bar dovranno puntare forse sul raccontare meglio le loro storie, perché a loro volta gli ospiti riprendano a capire che ascoltare qualcun altro è meglio che parlare di sé, e un numero di telefono scritto a penna è meglio di un selfie.
Ci si faccia forza, pensando a come è stata la realtà dei bar finora, e a come sarà poi. Perché più nera della mezzanotte non potrà essere, e sono sempre stati i bar a rendere la mezzanotte più piacevole.