La corsa all’oro del futuro è in piena esplosione. Le criptovalute sono tra gli argomenti di conversazione più caldi in assoluto, a maggiore se viste alla luce dell’impressionante decollo del loro valore negli ultimi mesi (a ottobre la capitalizzazione di mercato delle criptovalute ha sfiorato i 3 trilioni di $, con il prezzo di Bitcoin a 60.000€). I NFT in generale sono sotto i riflettori, e anche i big del mondo beverage stanno cominciando a farne la conoscenza.
Prima di tutto un ripassino: i NFT (non fungible tokens) sono gli equivalenti digitali di un certificato di proprietà. Sono gettoni, appunto, unità di dati che certificano un possedimento, sia esso fisico o virtuale, e hanno valore perché registrati su Blockchain (di qui a suo tempo parlammo qui). In quanto tali, non sono fungibili: non possono essere, cioè, spesi come i Bitcoin o le criptovalute. Si posseggono e basta, e questa loro natura è stata sufficiente per scatenare un discreto marasma negli ultimi tempi, soprattutto dopo il loro coinvolgimento nel mercato della cosiddetta digital art, l’arte virtuale che sta viaggiando su centinaia di milioni di dollari di valore.
Il grosso delle critiche va a incentrarsi sulla fumosa dimensione in cui i NFT vivono: ciascuno di essi è collegato a un oggetto (o una licenza, o un fantomatico diritto), ma di per sé non hanno valore legale. Possedere un NFT non comporta altro che un ipotetico status symbol da poter sfoggiare, nulla più. A maggior ragione nel caso della digital art, che di certo non si può esporre in casa, eppure genera esempi come Mike Winkelmann e il suo Everydays: The First 5000 Days, collage di cinquemila foto digitali venduto per 69.3 milioni di dollari da Christie’s nel 2019.
Grossa è peraltro l’apprensione per il mercato dei NFT, che oltre a essere instabile e non completamente riconosciuto da un punto di vista formale, suscita non pochi grattacapi per quel che riguarda l’inquinamento ambientale (la firma di contenuti digitali richiede dispendio di energia) e la facile esposizione a falsificazioni o plagi. Ciononostante, anche il mondo del beverage ha mosso passi importanti per intercettare questa nuova realtà, specificamente quello della birra: e a scomodarsi sono stati (i soliti) nomi di grido.
A giugno, AB InBev (il più grande produttore di birra al mondo) aveva messo in palio dieci pacchetti che comprendevano un’opera d’arte e una livrea a tema Stella Artois (parte del portfolio AB InBev) da conferire a un cavallo virtuale, che si suppone gli acquirenti possedessero già: le corse ippiche sono infatti uno dei campi di maggior proliferazione per gli NFT, perché i cavalli stessi sono di fatto token, beni digitali che si possono vendere, scambiare, e da cui guadagnare denaro. Il NY Times, a metà 2021, ha riportato di un “allevatore” virtuale che ha venduto un’intera scuderia per otre 250.000 dollari.
Lindsey McInerney, capo del dipartimento di tecnologia, ricerca e sviluppo di AB InBev, non ha dubbi: “Siamo in un momento storico senza precedenti, dove è ormai in formazione un accesso al metaverso, fatto di reale e digitale che si intrecciano. Non è più una previsione, è qualcosa che sta accadendo. I NFT sono il ponte che ci condurrà a una nuova dimensione”. Tanto che anche un altro marchio di AB InBev, Budweiser, ha mosso verso il total digital il 30 novembre scorso, con la sua prima asta di NFT: si è chiamata The Heritage Collection, composta di 1,936 diversi design per le lattine Budweiser, tutti virtuali, per ripercorrere la storia del brand. Prezzo, per chi fosse ancora interessato ai pochissimi pezzi rimasti: dai 2,200 ai 20,000 dollari.
Potrebbe sembrare il trionfo della modernità estrema, la lungimiranza spessissimo in bilico tra genio e assurdità. Ebbene, anche i conservatori stanno cedendo: la Belgian Barrels Alliance (BBA), che riunisce birrai e agricoltori belgi (storicamente integralisti del luppolo) ha recentemente fatto il proprio ingresso sul mercato NFT, rendendo disponibili unidici gettoni unici, in collaborazione con Zeromint, piattaforma di creazione NFT a basso impatto ambientale. Gli undici vincitori dell’asta avranno accesso a programmi VIP e a un menu di birre d’annata, ma soprattutto saranno protagonisti nientemeno che di un film, dal fantasioso titolo Belgian Barrel, che mira a celebrare la tradizione e la storia del prodotto. È un modo, come la stessa BBA ha comunicato, per “salvaguardare l’identità della birra belga”, che dal 2017 è Patrimonio UNESCO. Ma siamo davvero sicuri sia questa la strada, anacronisticamente, giusta?