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Tre ingredienti, olio di gomito e coppetta senza troppi fronzoli. Il Daiquiri è uno dei cocktail più bevuti e apprezzati del mondo, tanto semplice quanto adattabile ai gusti di chiunque. Preferito da intellettuali e statisti, nato in una miniera da sogno e ancora di questi tempi in cima alle liste di gradimento del pianete: oggi è il Daiquiri Day, un’occasione in più per ripercorrere la storia e la ricetta di questa miscela immortale.
Drink di superba bevibilità, un connubio ideale tra freschezza, dolcezza e spinta, divenuto simbolo della miscelazione cubana insieme a un altro classicissimo come il Mojito. Prende il nome dalla regione di Cuba nella quale nel 1898 andava trovandosi Jennings Cox, un ingegnere inglese giunto sulla Isla per occuparsi di una miniera locale; pare fu il mezzo con cui si festeggiò la scoperta del giacimento, o comunque un successo professionale (e pare anche che il collega con cui Cox festeggiò fosse italiano, ovviamente). Cuba disponeva di tre prodotti indigeni senza eguali, come ron, zucchero di canna e lime, e tanto bastò per miscelare un cocktail destinato alla leggenda.
Consumato alla buona anche ai bordi delle sgangherate strade cubane dell’epoca, il Daiquiri si elevò di caratura quando fu affidato al mistico Costantino Ribalaigua Vert, l’indimenticato e indimenticabile bartender de La Floridita, oltre che punto di riferimento per la formazione di centinaia di professionisti: Costante rivisitò le proporzioni della ricetta e soprattutto la consacrò con l’uso del frullatore, caposaldo dell’ospitalità cubana. Era nato il Frozen Daiquiri, la versione rassomigliante a un sorbetto (la cui tecnica viene usata anche per il Margarita) che ancora oggi rimane quella servita a L’Avana, a meno di richieste diverse.
A La Floridita accorse il sempre assetato Ernest Hemingway, che a Cuba risiedette in due fasi distinte della sua vita: fu qui che scrisse Per chi suona la campana e Il vecchio e il mare, che in tutto gli fruttarono due premi Pulitzer e un Nobel per la letteratura (anche se per il primo romanzo l’onorificenza gli venne negata per l’opposizione di Nicholas Murray Butler, rettore della Columbia University che gestisce il titolo). Papa assaggiò il Daiquiri, apprezzandolo ma rimarcandone l’eccessivo contenuto di zucchero, pericoloso per il suo diabete. Divenne comunque habituèe del bar, consumando ingenti quantità di una ricetta che lui stesso contribuì a creare: il Papa Doble (o Hemingway Special), senza zucchero, con maraschino e succo di pompelmo. Ruvida, secca, aromatica, come probabilmente fu la tormentata vita di Hemingway, che testimoni giurano di aver visto trangugiare quindici Daiquiri in un solo pomeriggio.
Fu il drink preferito da John Fitzgerald Kennedy, che fu immortalato a sorseggiarlo sorridente dopo aver ricevuto la notizia della vittoria elettorale contro Richard Nixon; e rimane una delle colonne portanti della miscelazione mondiale ancora oggi, a più di un secolo dalla sua invenzione. Sono almeno cinque le varianti studiate e conosciute nel mondo, tutte in bilico sull’eterno gioco d’equilibrio tra citrico, dolce e alcolico che la ricetta originale prevede: shakerato o frozen, con pompelmo o lime, con rum più o meno invecchiato (i puritani non si allontanano dal Bacardi Carta Blanca, lo stesso che Cox descrisse nei propri appunti personali), addirittura con un’aggiunta di crema al cacao per il godibilissimo Mulata. La vostra versione ideale è lì che vi aspetta, basta trovarla (ma evitate di berne quindici in fila come Hemingway, per favore).
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