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IL PARERE DEL BIRRIFICIO BALADIN
Teo Musso, neo papà per la terza volta (dopo Isaac e Wayan avremo, anche se non subito, una nuova birra di nome Soraya) mi ha accoratamente espresso al cellulare la sua opinione che nonostante una multa molto salata, in parziale controtendenza, tende non a biasimare chi applichi una legge anche se ritenuta carente ed inadeguata ma bensì chi non abbia tenuto conto degli obblighi e dei divieti contenuti in tale legge. Ciò non toglie che, dopo questa doverosa dimostrazione di onestà intellettuale, Teo assicuri di lavorare costruttivamente per arrivare ad una benedetta legge che risponda alle esigenze dei nostri imprenditori-artigiani. Tramite il suo collaboratore Fabio Mozzone, a cui il genio di Piozzo ha affidato la direzione del settore marketing, ricevo, raccolgo e divulgo il Teo-pensiero al riguardo.
“Di base il problema è ormai noto. Non esiste una legge che definisca il termine birra artigianale. Chiaramente chi si oppone ai produttori che dichiarano il frutto del loro lavoro come birra artigianale di base non sbaglia perché non esiste, appunto, una definizione legale. Questo però nella ragione comune è un’evidente carenza. Attualmente che il produttore sia una multinazionale o una micro realtà, non fa differenza agli occhi del legislatore. Se poi si cerca su un motore di ricerca le parole “birre artigianali”, compaiono tutta una serie di produttori che sono potenzialmente a rischio di sanzione per ciò che dichiarano. Sempre sul web qualcuno ha utilizzato Wikipedia per esprimere il suo pensiero sul termine “birra artigianale” ma, ovviamente, si tratta solamente di un’opinione, sicuramente condivisa dalle masse, ma non dal legislatore. Baladin è stato iscritto all’associazione artigiani fino al momento in cui, trasformando la propria ragione sociale in società agricola, ha aderito all’associazione degli agricoltori. Questo è sicuramente stato un problema dal punto di vista formale. Ma è anche vero che la maggior parte dei microbirrifici sono brewpub e di conseguenza commercianti avendo collegata l’attività di produzione a quella di somministrazione. Dunque tutti hanno forse ragione e tutti torto. L’opinione pubblica, specie in questo momento, in Italia, ha un’idea abbastanza consolidata e chiara di cosa si intenda per birra artigianale ma questo può servire per evitare una multa, non per risolvere il problema della mancata legge che tutela o definisce il termine”.
IL PROBLEMA DELLA BIRRA ARTIGIANALE ALL’ESTERO
Ora facciamoci del male scoprendo come questo problema non passi nemmeno per l’anticamera del cervello delle altri nazioni europee. Ho coinvolto autorevoli colleghi di mezza Europa e tutti hanno affermato come praticamente non esista la qualificazione di birra artigianale senza che questa mancanza assilli o possa dare rogne ai birrai. L’esperto svizzero Laurent Mousson, conoscitore e grande amico del movimento artigianale italiano, conferma come, a sua conoscenza, nel suo paese non ci siano delle regole specifiche concernenti il termine “artisanal” / “handwerklich” mentre in Francia un “artisan” deve essere obbligatoriamente iscritto al registro professionale della sua specialità e può impiegare massimo 10 persone nella sua impresa. Nessuna idea invece sulla Germania ma Laurent ci dice come la nozione di “handwerklich” venga molto raramente utilizzata per vendere dei prodotti. Piuttosto si usa il termine “handgefertigt”, cheh significa “fatto a mano” quindi quando ci sono degli inganni è chiaro che scattino delle sanzioni. Tuttavia in Germania si comincia a parlare di “craft beers” quando si parla di birre di microbirrerie americane, ma essendo questa un’idea così nuova, non esiste un termine equivalente nella lingua tedesca.
Un altro amico ed esperto di caratura internazionale come l’olandese Jos Brouwer ci dice come nei Paesi Bassi e nello stesso Belgio non vi siano regole legali sull’utilizzo del termine “craft”, “artisanal”, “ambachtelijk” o altri aggettivi similari e che l’espressione “ambachtelijk gebrouwen” sia praticamente priva di significato tanto da essere tranquillamente considerata una frase vuota.L’esperto fiammingo Carl Kins avvalora tali affermazioni ribadendo che nulla al riguardo viene menzionato nella legislazione del Belgio dove nessuno potrebbe usare il termine “artisanal” che non è contemplato né regolato.
Anche l’irlandese John Duffy del Beoir, il locale movimento dei consumatori, usa il termine “frase vuota” con cognizione di causa dato che la loro associazione aveva richiesto di proporsi come l’autorità emettitrice di un marchio di fabbrica per il termine “birra artigianale irlandese”. L’ufficio brevetti ha invece ribadito come detto termine non sia in grado di servire come indicazione dell’origine commerciale dei prodotti e dei servizi che sono inclusi nell’applicazione e non essere percepito dai consumatori interessati come un’indicazione di origine commerciale ed ecco che quindi così per il termine “craft beer” non solo manca una definizione giuridica e a quanto pare non significa nulla di specifico anche per i consumatori.
Andando oltreoceano, sembra che pure in Canada, come testimonia la bravissima scrittrice degustatrice Mirella Amato, di chiare origine campane, non esista una definizione legale di “craft beer” così come non dovrebbe esserci neppure negli Stati Uniti dove però da tempo è in atto un vivace dibattito promosso dalla potente BA (Brewers Association) capitanata dal “papà dell’homebrewing” Charlie Papazian assistito da collaboratori di elevatissima caratura, dotati di grande competenza e spiccate capacità operative. Dal sito della BA ci arriva una definizione di birrificio artigianale americano. Deve avere tre chiarissime caratteristiche, essere piccolo, indipendente e tradizionale.
……Piccolo quando non superi una produzione annuale di 6 milioni di barili di birra (oltre 7 milioni di ettolitri!) attribuiti ad un birrificio cioè se due produttori di birra usano lo stesso birrificio, il numero non è cumulativo, cioè tutte e due possono produrre fino a 7 milioni di ettolitri. In più, queste aziende possono produrre “flavored malt beverages” (bevande di malto aromatizzate) che non contano come birre e dunque non devono essere incluse nel calcolo.
……Indipendente quando è posseduto o controllato per meno del 25% da parte di un membro di un’industria produttrice di bevande alcoliche che non sia esso stesso un birraio artigianale.
….Tradizionale se il birraio produca come maggior volume della sua gamma, una birra di puro malto oppure se il birraio stesso copra almeno il 50% della sua produzione con una birra di puro malto e il resto con birre in cui usi aggiunte atte a migliorare e non ad abbassare l’intensità degli aromi e dei sapori.
Nella filosofia della BA i birrifici artigianali sono piccoli produttori il cui segno distintivo è rappresentato dal concetto di innovazione intesa come interpretazione di stili classici con l’applicazione di nuove idee nonché la sperimentazione e lo sviluppo di nuovi stili non collegabili a precedenti riferimenti. Col termine “craft” si intende generalmente una birra fatta con ingredienti tradizionali, come l’orzo maltato ma spesso vengono aggiunti ingredienti interessanti e non convenzionali per apportare un carattere distintivo. I birrifici artigianali tendono ad essere molto coinvolti all’interno della propria comunità diventandone parte integrante attraverso la filantropia, donazioni di prodotti, azioni di volontariato e la sponsorizzazione di eventi. Inoltre hanno un approccio e un’interazione diretta ed individuale con i propri clienti. Mantengono la loro integrità attraverso i loro prodotti e la loro indipendenza, liberi dagli interessi che condizionano le birrerie industriali. La loro diffusione sta incrementandosi in modo esponenziale tanto che la BA orgogliosamente afferma come la maggioranza degli americani vive nel raggio di 10 km da un birrificio artigianale.
Tutto chiaro e condivisibile in pieno ma se guardiamo bene, neppure negli Stati Uniti esiste una legge che definisca la birra artigianale e da quello che ho capito, al legislatore importava soltanto il volume annuale e le tasse associate infischiandosene se una birra sia “craft” o no. In ogni caso, la Brewers Association vigila perché l’inarrestabile onda sta minacciando le grandi potenze. L’amico Paul Gatza, direttore della BA, mi ha riferito che già negli anni Novanta molti marchi di birre artigianali furono espulsi dai portfolio di distributori di birra che facevano parte della rete di vendita Anheuser-Busch che voleva da essi un’esclusiva sia “fisica” che “mentale”. Hanno anche minacciato di farlo di nuovo un paio di anni fa, invitando i grossisti a comprare dai distributori vicini se solo se trattavano prodotti Anheuser-Busch InBev o altri prodotti non ritenuti in grado di competere.
IL PARERE DI LUIGI D’AMELIO DETTO SCHIGI
Torniamo in Italia perché vorrei riportare il pensiero di uno dei più arguti ed intelligenti ambasciatori della nostra vivacissima scena birraria, Luigi D’Amelio detto Schigi, notissimo wine-sommelier nonché esperto di birre e, più recentemente, produttore molto apprezzato col marchio Extraomnes. Ecco cosa mi ha scritto Schigi. La birra artigianale esiste. Noi abbiamo questa bellissima parola, artigianale, che richiama l’arte, ma anche il lavoro giornaliero mentre in inglese viene usato il termine “craft”, che evoca altri scenari, molto più orientati sulla “tecnica” piuttosto che sul genio e l’inventiva. Un birraio artigiano si distingue per l’amore verso il prodotto, dalla scelta degli ingredienti, sui quali non si fa mai nessun calcolo economico, alla creazione della ricetta, a volte visionaria, alla sua realizzazione, sempre attenta e rispettosa dei tempi della natura. La cura della birra è il pensiero che ossessiona il birraio ventiquattrore al giorno. Anche dopo aver chiuso il birrificio la sera o per una festa, l’artigiano pensa in continuazione alla birra che sta fermentando, alla prossima che dovrà fare o alla maturazione di quella già imbottigliata. Tutte queste cose sono impossibili non solo da regolare, ma anche da descrivere in un ipotetico “disciplinare”. E’ per questo che è assolutamente inutile e anche un po’ ridondante scrivere “artigianale”. Quella birra, già dall’etichetta, dalla bottiglia, ma soprattutto dall’assaggio, non ha bisogno di ulteriori definizioni o “cappelli”: Comunica già da sola il grado di passione, lavoro, tecnica ed arte che sono stati utilizzati per produrla. E chi usasse la parola “artigianale” per definire le proprie birre, senza avere i requisiti minimi che ho elencato, danneggerebbe solo se stesso, in quanto il termine è troppo intriso di amore per poter essere sfregiato.
CONCLUSIONE
Una voce fuori dal coro? No, piuttosto un accorato riconoscimento al lavoro e alla dignità dei nostri agguerriti artigiani i cui straordinari prodotti parlano per loro senza il bisogno di bolle papali. Non avendo, come previsto, cavato un ragno dal buco ma almeno con la speranza di aver dato voce ad opinioni e testimonianze autorevoli, concludo con il sorriso riportando un episodio davvero paradossale. Beppe Vento, simpatia allo stato puro e talento naturale, birraio del comasco Bi-Du, uno dei nostri birrifici più considerati, aveva avuto l’idea di includere negli ingredienti apposti sulle etichette di tutte le sue magnifiche birre, accanto all’acqua, al malto d’orzo, al luppolo e al lievito, la parola “amore”. Informatisi sul pericolo di andare incontro a una multa, tutti i ragazzi dello staff del birrificio si sono messo alacremente al lavoro per cancellare la parola che fa girare il mondo. Quindi riguardo le birre artigianali, ammesso che esistano, si può scrivere “fatte con amore” ma non puoi mettere “amore” negli ingredienti “.
Per un’ampia panoramica sul mondo dei microbirrifici e sulle marche di birre artigianali in Italia si rimanda alla specifica sezione sull’annuario settoriale Birritalia: www.beverfood.com/quantic/negozio/product/annuari-beverfood-cartacei/birritalia-beverfood-annuario/
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