Relazione di EDI SOMMARIVA
Direttore Generale FIPE Fed. Italiana Pubblici Esercizi
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SOMMARIO: i canali di approvvigionamento dei pubblici esercizi – le problematiche di approvigionamento dei pubblici servizi – il mercato dei consumi alimentari fuori casa – una possibile evoluzione del settore pubblici esercizi – pluralismo imprenditoriale dei pubblici esercizi e partneriato con l’ingrosso
Rif. Temp.: Relazione tenuta in occasione del Seminario di Studi organizzato dalla Regione Lombardia MI 18.12. 2007
N.B Il testo completo ed originale della relazione è pubblicato integralmente sul sito della FIPE ( www.fipe.it/fipe/Interventi/Interventi1/intervento-dir18-12-2007.htm_cvt.htm ) cui si rimanda per una più ampia ed organica documentazione e informazione sul settore dei pubblici esercizi – La titolatura dei paragrafi è di nostra iniziativa.
I CANALI DI APPROVVIGIONAMENTO DEI PUBBLICI ESERCIZI
Quando parliamo di commercio all’ingrosso e di HORECA, dobbiamo pensare soprattutto ai generi alimentari il cui valore di acquisto per i pubblici esercizi (oltre 250.000 imprese) è di circa 11 miliardi di euro. Sebbene caratterizzati da multicanalità, almeno i due terzi degli acquisti (7 mld. di euro) fanno capo all’ingrosso, sia tradizionale che moderno.
Queste cifre, da sole, bastano a cogliere l’importanza che l’ingrosso riveste per le nostre imprese, ma, mi permetto di dire, che il ragionamento vale anche al contrario.
Se poi entriamo un po’ più in dettaglio scopriamo che:
-l’ingrosso tradizionale assorbe quasi il 50% degli acquisti
-quello a libero servizio supera di poco il 16%,
-un valore un po’ più alto è quello dei rifornimenti diretti dell’industria (18,6%).
-seguono poi quelli effettuati presso i punti vendita (GDO ma anche negozi specializzati) per il 7,6%,
-quelli presso i Mercati Generali ( 5.9%)
-quelli, infine, realizzati come Gruppi di Acquisto tra esercenti (soltanto il 2,8%).
Un canale, dunque, sostanzialmente lungo quello dell’Horeca, tradizionale, che rispecchia la situazione attuale del settore e della filiera.
LE PROBLEMATICHE DI APPROVIGIONAMENTO DEI PUBBLICI SERVIZI
Le imprese di pubblico esercizio, che rappresentano la grande maggioranza degli approvvigionamenti “fuori casa” hanno vincoli sia di tempo che di magazzino. L’attività è impegnativa sia in termini di contesto competitivo che di incombenze gestionali. Dunque la risorsa tempo diventa un bene prezioso da ottimizzare al meglio. C’è chi, come i bar, predilige l’ordine telefonico e la consegna a domicilio. Chi, invece, fino a che può (la ristorazione) preferisce scegliere di persona i prodotti ( soprattutto quelli freschi) e allora va per mercati, per negozi e anche nell’ingrosso a libero servizio.
Le problematiche relative ai magazzini dei pubblici esercizi sono note. Spazi solitamente molto limitati che richiedono forte rotazione delle scorte e, di conseguenza, alta frequenza negli approvvigionamenti. In tale contesto non trascurerei neppure gli oneri finanziari sottesi da scorte robuste (basta pensare ai vini). La scelta del canale di approvvigionamento di un pubblico esercizio è però ancora più complessa. Secondo il CERMES, i fattori di scelta sono molteplici .
Oltre a :
– i vincoli di tempo per l’attività di acquisto
– le disponibilità di spazio per lo stoccaggio dei prodotti
– la tipologia dei prodotti acquistati
vi sono anche :
– la cultura di orientamento alle vendite/acquisti
– il livello di delega imprenditoriale dell’attività di acquisto
– la densità territoriale dei canali di acquisto
– il peso dei “condizionamenti” finanziari
– la “storicità” delle relazioni con i fornitori
– il grado di percezione dei “costi nascosti” di approvvigionamento.
Questa “complessità” di motivazioni spiega perché per oltre il 67% degli approvvigionamenti venga ancora fatto presso l’ingrosso tradizionale e l’industria, nonostante i loro listini di vendita reali rimangano di fatto sconosciuti ai più. E di questi tempi non andrebbe assolutamente trascurata la leva del prezzo. Anzi, sono convinto che i pubblici esercizi debbano prestare più attenzione alle condizioni di prezzo dei loro acquisti. I margini per scaricare a valle sul consumatore si stringono sempre più non solo per la ridotta propensione al consumo ma anche per un contesto competitivo più difficile.
Se mettiamo in fila queste considerazioni, possiamo concludere che il fornitore ideale di un PE è un operatore ad alto livello di servizio in termini di:
• qualità;
• assortimento;
• frequenza di approvvigionamento
• trasparenza dei prezzi.
IL MERCATO DEI CONSUMI ALIMENTARI FUORI CASA
Ma tutto ciò ha un suo valore in un mercato molto dinamico, con notevoli dosi di cambiamento, come si sta delineando oggi il mercato dei consumi “fuori casa” ? Mai come in questi ultimi quindici anni i consumi delle famiglie hanno subito cambiamenti più radicali. Se appare scontata, in virtù della legge di Engel, la progressiva riduzione della quota destinata ai consumi alimentari, meno scontata risulta la massiccia espansione del fuori casa che allinea il nostro Paese ai modelli dei Paesi anglosassoni e del Nord Europa ( abbiamo ormai superato come consumi fuori casa il 32% di quelli alimentari complessivi).
I cambiamenti demografici e sociali, la terziarizzazione dell’economia, il diverso equilibrio tra tempo di lavoro e tempo libero sono moltiplicatori delle occasioni di consumo fuori casa e, dunque, del passaggio della ristorazione verso un mercato sempre più di “massa”. Prodotti, prezzi, sistemi di approvvigionamento e di stoccaggio, modelli organizzativi, specializzazione di canale e segmentazione dell’offerta sono variabili che meritano nuovi approcci per dare risposte coerenti ad un mercato che vale oltre 62 miliardi di euro. I consumi fuori casa continuano a crescere anche in questi ultimi, tormentati anni, anche se più lentamente rispetto al passato. Il mercato cresce a beneficio di tutta la filiera, ingrosso compreso.
Se guardiamo, poi, alla stagnazione dei consumi alimentari domestici mi pare che non ci siano troppe alternative ad un processo che metta al centro le imprese del fuori casa. A ciò aggiungerei anche le implicazioni che derivano dalla forte concentrazione della distribuzione commerciale non replicabile nel fuori casa dove, invece, il valore della prossimità mi pare francamente insostituibile. Un mercato, quello dei cosiddetti “consumi fuori casa”, che si trova di fronte a numerose sfide “dualistiche” : localismo e globalizzazione, specificità e banalizzazione, diversità e standardizzazione, eccellenza e discount. Se sul fronte della domanda cambiano gli stili di vita, gli stili alimentari, sul versante dell’offerta sta cambiando il modello di impresa e alcune discutibili scelte politiche stanno scardinando il presunto “monopolio” del pubblico esercizio nel mercato dei consumi alimentari fuori casa.
Io vedo nelle scelte politiche, vecchie e nuove, un solo risultato: superare il confine tra somministrazione e vendita al dettaglio definendo un’offerta despecializzata in cui tutti fanno tutto e nella quale il cibo diviene commodity e come tale acquistabile al prezzo più basso possibile. Questo è il vero rischio che stiamo correndo. E badate bene tutto questo non sta avvenendo in un Paese scandinavo o anglosassone ma in Italia, nel Paese del vivere e del mangiare bene.
Provate a chiedervi quale sia, oggi, il valore sociale e culturale del cibo. Dinanzi alle grandi trasformazioni degli ultimi dieci anni che vanno dall’uso massiccio dei convenience food, dei precotti, dei piatti pronti fino ad arrivare ad un pasto sempre più destrutturato sia nella composizione che nei tempi del consumo è ancora possibile attribuire al cibo il valore che aveva soltanto cinque o dieci anni fa?
Molti, forse anche qui tra di voi, ritengono che ci troviamo dinanzi all’inesorabile avanzata della modernità. Un fiume in piena che non possiamo fermare con le mani. Io penso, invece, che il cambiamento non abbia un’unica direzione e un’unica intensità. Ci sono scelte e responsabilità che possono accelerare, ritardare, deviare il processo di deriva.
Parto dalle nostre responsabilità. Da quelle degli stessi pubblici esercizi, quando abbandonano il campo della qualità e del servizio alla ricerca di facili scorciatoie verso una deriva della qualità, sospinti anche dalla dissennata politica fiscale. Un percorso che non si traduce in efficace segmentazione dell’offerta (a ciascuno il suo mercato) ma in sovrapposizione di esercizi dalla confusa identità.
UNA POSSIBILE EVOLUZIONE DEL SETTORE PUBBLICI ESERCIZI
Negli ultimi dieci anni il risultato lordo di gestione unitario ha quasi raggiunto lo zero e la produttività, fatta 100 quella misurata nel 1994, si è ridotta a 96 . Nello stesso periodo i dipendenti occupati sono aumentati al ritmo di circa 30.000 all’anno raggiungendo a fine 2006 la cifra di 590.000 (contemporaneamente sono aumentati i posti di lavoro autonomo, passando da 327.000 a 468.000), contribuendo in tal modo a rendere meno pesante per la collettività il problema sociale della disoccupazione ma fatalmente scaricandolo – solo parzialmente – sui prezzi di vendita.
Oggi è diventato oltremodo difficile trasferire sui prezzi le tensioni di costo e al settore si affaccia una prospettiva preoccupante : meno posti di lavoro, uscita forzata dal mercato delle imprese più fragili (ci si aspetta nei prossimi cinque anni un ridimensionamento del 10/15%) e , quello che più preoccupa, crisi del modello italiano di ristorazione.
Se volessimo raffigurare l’offerta ristorativa come una piramide , il settore potrebbe essere diviso in tre segmenti : alla sommità i locali più prestigiosi, alla base quelli più economici (dal fast food al libero servizio, alle catene, ad alcuni ristoranti etnici) e nel mezzo la ristorazione tradizionale, le pizzerie con una ampia gamma di prezzi e di soluzioni ristorative.
Ecco, il segmento centrale (la “pancia”) della piramide è il segmento più in crisi, crisi di identità, come il “ceto medio” sociale che non c’è più. C’è chi tende a salire verso l’eccellenza (ma oltre all’impegno pesante per un’impresa c’è da chiedersi se vi siano abbastanza consumatori da poter alimentare un’eccellenza più consistente) e chi invece punta a scendere nella fascia più bassa della ristorazione. Il modello piramidale sta quindi cambiando verso una piramide con due soli settori : uno d’eccellenza ma caro, e uno economico e standardizzato (una sorta di low cost), secondo uno schema diffuso nei paesi anglosassoni.
Un mercato, quello dei “consumi fuori casa”, che si trova così di fronte a numerose sfide “dualistiche” : localismo e globalizzazione, specificità e banalizzazione, diversità e standardizzazione, eccellenza e discount. Se tale processo continuerà, allontanando la struttura della nostra offerta da un modello multistrati come quello francese, sarà inevitabile perdere il nostro grande patrimonio fatto di tradizioni, di diversità di cucine e di prezzi. Andremo verso un mercato “semplificato”in cui vi saranno tre tipologie di imprese :
a) gli indipendenti eccellenti
b) le catene
c) gli indipendenti marginali
PLURALISMO IMPRENDITORIALE DEI PUBBLICI ESERCIZI E PARTNERIATO CON L’INGROSSO
Oggi c’è consapevolezza di tutto ciò? Io credo di no, perché il settore pubblico che ha un ruolo ancora importante nel determinare gli assetti del settore sembra privilegiare politiche del “lassaiz fare”, in cui chiunque debba poter fare di tutto, anche se non possiede nemmeno le informazioni di base per poter svolgere questa delicata attività di servizio, che ha riflessi significativi sulla salute dei cittadini, sull’ordine pubblico e in definitiva sulla stessa qualità della vita di una nazione.
Ma sono convinto che anche la filiera non abbia le idee chiare sul settore che vuole. Taluni produttori investono direttamente nel settore implementando dei format di pubblico esercizio ( a gestione diretta o in franchising) con lo scopo principale di promuovere il proprio marchio ad ogni costo. Altri producono beni e servizi fortemente concorrenziali con il fuori casa con il risultato di indebolire ancora di più il settore. Alcune grandi strutture dell’ingrosso si avventurano in soluzioni formative e consulenziali all’Horeca poco strutturate e, pertanto, non sempre credibili ed efficaci, salvo poi addirittura finire con il rilevare la gestione dei locali più fragili.
Io credo, invece, che sia giusto che le filiera debba puntare a salvaguardare il pluralismo imprenditoriale nel settore, aiutandolo a credere di più in se stesso e a gestire il cambiamento. Vedo ad esempio andare verso un grossista partner del pubblico esercizio anche per attività di promozione sul punto vendita. Non secondo gli schemi adottati nel dettaglio, ma immaginando occasioni in grado di esaltare il contenuto di servizio del pubblico esercizio. Non basta consegnare soltanto la merce. Bisogna anche far sì che la gente entri nei locali per poi consumare.
La sommatoria dei valori dei marchi di prodotti è sempre e comunque inferiore al valore complessivo che il singolo esercizio mette a disposizione del cliente. E poi occorre lavorare insieme sulla specializzazione di canale per stimolare l’industria stessa. Lo stiamo in realtà facendo, in accordo con importanti Consorzi di distribuzione e con alcuni prestigiosi marchi industriali di bevande come ripristinare, per aree e per tipologia del prodotto il vuoto a rendere.
In questa logica di collaborazione e, consentitemi di dirlo, di coevoluzione del settore, il ruolo dell’ente pubblico e , soprattutto, di quello regionale e locale è ancora rilevante in un mercato grandemente polverizzato come è e come, mi auguro, sarà ancora quello del pubblico esercizio. A patto che, nell’ingrosso, come nel dettaglio e nel pubblico esercizio, sappia perseguire un miglior equilibrio tra obiettivi di efficienza economica e contenimento delle esternalità negative ( economiche, sociali e territoriali) che il libero mercato può produrre.
N.B Il testo completo ed originale della relazione è pubblicato integralmente sul sito della FIPE ( www.fipe.it/fipe/Interventi/Interventi1/intervento-dir18-12-2007.htm_cvt.htm ) cui si rimanda per una più ampia ed organica documentazione e informazione sul settore dei pubblici esercizi – La titolatura dei paragrafi è di nostra iniziativa.