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Lorenzo Dabove (alias Kuaska) – Direttore Culturale Unionbirrai – Degustatore Professionale di Birre – Life Member of CAMRA – Giudice internazionale alla Word Beer Cup – Scrittore e pubblicista in materia birraria – www.kuaska.it
Fonte: Annuario Birre Italia 2004-05 ©Beverfood Srl – Milano
SOMMARIO: Come si produce il lambic – Il lambic puro e i prodotti derivati – La Gueuze – La Kriek – La Framboise – Il Faro – Panoramica sui principali produttori di lambii – Bibliografia e Sitografia
Rif. Temporale: 04/2004
Se osserviamo con attenzione “Le Nozze di Contadini” dipinto dal grande Bruegel (it.wikipedia.org/wiki/Pieter_Bruegel_il_Vecchio) intorno al 1568, in basso a destra si può notare un giovanotto dall’aria soddisfatta, forse il novello sposo, che riempie subito le brocche rimaste vuote raccolte in una grande cesta. Le riempie, certo, ma di che cosa? Autorevoli studiosi ci assicurano che si tratta di “lambic”, bevanda molto popolare all’epoca, spontaneamente fermentata grazie all’azione dei lieviti selvaggi e dei batteri presenti nell’aria di quella miracolosa ristretta area solcata dal fiume Zenne, detta Pajottenland, ancora oggi così rurale e fatata nonostante abbia a ridosso le incombenti ciminiere della capitale d’Europa.
Nel Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli è conservato il celeberrimo dipinto “La Parabola dei Ciechi” nel quale è ritratta la chiesa di Sint Anna Pede nelle cui vicinanze si trovano ancor oggi deliziosi caffè dove poter degustare un buon bicchiere di “gueuze” (uno dei tradizionali derivati del lambic). In molti altri dipinti di Bruegel ritroviamo chiese, ponti e mulini che ancora oggi possiamo ammirare nel Pajottenland.
L’origine del nome lambic è alquanto misteriosa ma la versione più accreditata la fa risalire al villaggio di Lembeek, una ventina di km a sud-ovest di Bruxelles. Ma cos’è il lambic? Birra? Non proprio, io concordo col produttore Frank Boon che l’ha genialmente definito “l’anello mancante tra la birra e il vino”.
Come si produce il lambic ?
La miscela di grani utilizzati per produrre il mosto deve per legge contenere almeno il 30% di frumento rigorosamente non maltato, il resto è rappresentato nella stragrande maggioranza dei casi da malto d’orzo mentre è meno comune l’utilizzo di mais, riso e segale.
Il malto d’orzo impiegato nella produzione del lambic è di colore chiaro tipo pilsener ad alto potere enzimatico per bilanciare l’utilizzo del frumento non maltato del tipo tenero (triticum aestivum) che, rispetto al malto d’orzo, è più ricco di amidi e proteine ma meno di fibre e lipidi. La macinazione dei grani avviene tramite mulini che permettono di regolare la distanza tra i rulli in funzione dell’utilizzo prima del frumento (1 mm.), perché essendo senza cariosside ha le pareti cellulari integre (e quindi è più duro e va macinato più fine) e poi del malto d’orzo (1,5 mm), in quanto avendo le pareti cellulari già degradate per la maltazione, è più friabile ed, inoltre, va solo delicatamente compresso per mantenere intatte le scorze (utili per la fase di filtrazione).
L’ammostamento, che si effettua nel tino di miscela che riceve i grani macinati dalla tramoggia deve permettere al birraio di ottenere un mosto (ricco di amido non idrolizzato, destrine e amminoacidi) che possa risultare ideale allo sviluppo dei diversi e complessi microrganismi protagonisti della lunga e misteriosa fermentazione. Al termine dell’ammostamento, comincia l’estrazione attraverso il letto filtrante ed il primo mosto è ricircolato per la chiarificazione. Il risciacquo delle trebbie è effettuato con acqua alla temperatura di 85-95°C, molto più elevata di quella usata per le altre birre, cioè 74-76°C. che favorisce l’ulteriore solubilizzazione dell’amido e delle destrine rimaste nelle trebbie e comporta una estrazione di tannini che precipiteranno in gran parte durante la lunga fermentazione.
Per la fase di bollitura viene utilizzato in grande quantità (circa sei volte quello usato normalmente) del luppolo invecchiato oltre tre anni, detto “suranné”, dal caratteristico odore di “formaggio maturo”, che perdendo in pratica il potere amaricante, apporta quasi esclusivamente le proprietà antisettiche e antiossidanti. Tale fase di bollitura è piuttosto lunga, da circa 3 ore ½ a 6 e porta ad una riduzione del volume del 25-30%.
Può quindi iniziare la fondamentale fase di raffreddamento, durante la quale avviene la inoculazione spontanea da parte dei microrganismi che popolano gli ambienti della birreria. Il mosto viene pompato nella vasca di raffreddamento posta nelle birrerie più tradizionali nella parte più alta, il sottotetto, dove opportune fessure favoriscono il passaggio della “miracolosa” aria ricca dei “magici” lieviti selvaggi e batteri. Tale vasca, lunga più di 7 m. e larga più di 5 m. e profonda solamente intorno ai 30 cm, serve a creare una superficie di contatto con l’aria più ampia possibile dato che il mosto vi trascorre l’intera notte, prima di essere pompato l’indomani, quando ha raggiunto una temperatura di 18-20°, in un’ulteriore vasca per ottenere un liquido più omogeneo e per convogliare i microrganismi in tutto il volume.
Finalmente il mosto è pronto per riempire le botti di legno usate provenienti dalle regioni di Porto, Sherry, Madeira e Cognac. Allineate nelle buie e polverose cantine, tra intoccabili ragnatele e gatti furtivi, queste botti in legno di rovere o castagno sono davvero suggestive e impressionanti. La più piccole dette tonneaux in francese o tonnen in fiammingo contengono circa 250 litri, le medie pipes o pijpen circa 650 litri, mentre le monumentali foudres o foeders possono contenere oltre 3000 litri ! Essendo state impiegate per molti anni nell’invecchiamento di vini o distillati, hanno ceduto ad essi gran parte delle sostanze estraibili e quindi possono ospitare la fermentazione del lambic senza interferire in modo marcato sul gusto e sul colore, ma avendo ognuna la propria “storia”, possono conferire sfumature diverse ma sempre molto interessanti..
La lunga permanenza del lambic nelle botti (anche 3 anni) fa in modo che si presentino composti polifenolici che concorrono al colore ambrato nonché ad una sensibile astringenza e a note di vaniglia create dalla vanillina originata dalla degradazione della lignina.
Non dimentichiamo che il legno, grazie alla sua struttura porosa, è colonizzato a fondo da lieviti e batteri. Dobbiamo pensare ad ogni contenitore di fermentazione come ad un micro-ambiente unico in cui la popolazione di lieviti e batteri presenta equilibri diversi rispetto a tutte le altre botti. Avremo quindi un’assoluta unicità del prodotto finale: infatti ben difficilmente il lambic di due botti, anche vicine, sarà identico, pur partendo dallo stesso mosto.
Ma torniamo proprio al nostro mosto che avevamo lasciato intorno ai 15-20°C pronto per il riempimento delle botti. La fermentazione principale è accompagnata dalla produzione abbondante di schiuma bianca che trabocca dall’apertura del fusto cui non viene inserito il tappo; in pochi giorni la schiuma diventa di colore scuro e si indurisce formando un tappo naturale che protegge il mosto da ossidazione ed infezioni. Dopo qualche settimana l’apertura viene finalmente chiusa con l’apposito tappo. Durante la fermentazione e la maturazione si ha perdita di acqua ed etanolo e si ha quindi una diminuzione del volume ed un aumento dello spazio nella parte superiore della botte, a rischio quindi di ossidazione ed di possibile sviluppo di batteri acetici. Il birraio per far fronte a questi pericoli deve effettuare il rabbocco con lambic della stessa cotta prelevato da un’altra botte. Tradizionalmente il lambic si produce da ottobre a maggio per evitare le alte temperature estive che ostacolerebbero il raffreddamento e favorirebbero le infezioni.
Per motivi di spazio ed anche per volere dare un taglio che privilegi l’aspetto divulgativo, non mi soffermerò sulle complicate e lunghe fasi delle fermentazione spontanea del lambic, rimandandovi alla nutrita bibliografia che indico in calce all’articolo.
Non prima però di avervi incuriosito e stimolato ad approfondire questa affascinante trasformazione. Per me, innamorato (corrisposto) di questa straordinaria bevanda, i difficilissimi nomi dei lieviti selvaggi e dei batteri protagonisti delle 5 fasi (le prime 4 in botte e la quinta in bottiglia) della più antica delle fermentazioni, riescono ad emozionarmi ogni volta che li elenco.
Nella prima fase crescono colonie di “enterobatteri” (come Enterobacter cloacae, Klebsiella aerogenes, Escherichia coli, Hafnia alvei, Enterobacter aerogenes e Citrobacter freundii), nonché lieviti non fermentanti il maltosio (come Kloeckera apiculata, Saccharomyces globosus e dairensis).
Nella seconda fase imperano i “saccharomyces” (cerevisiae, bayanus, uvarum e inusitatus). Nella terza fase (detta “dell’acidificazione”) aumentano i batteri lattici (come il pediococcus) e nelle botti più grandi anche i lactobacillus mentre tra i lieviti i saccharomyces lasciano il campo ai brettanomyces (soprattutto bruxellensis e lambicus e poi custersii, anomalus e intermedius). Nella quarta fase (detta “della maturazione”) diminuiscono i batteri lattici e molto dopo anche i lieviti brettanomyces si riducono. Continua l’attenuazione del mosto.
Nel corso delle ultime tre fasi sono sempre presenti batteri acetici che, specialmente nei mesi più caldi, possono essere molto numerosi. Nella quinta fase (detta “della rifermentazione in bottiglia”) sono presenti al momento dell’imbottigliamento molti lieviti selvaggi (Candida, Torulopsis, Hansenula, Pichia e Criptococcus).
Questi lieviti, che probabilmente derivano dallo spesso film che si sviluppa nei barili durante la lunga fermentazione, non si moltiplicano e scompaiono dopo una decina di mesi. Invece i lieviti Brettanomyces e i batteri lattici aumentano in modo esponenziale ma dopo 14 mesi in bottiglia, sono i batteri lattici ad essere prevalentemente riscontrabili.
Il lambic puro e i prodotti derivati
Il lambic (lambik o lambiek in fiammingo) che esce dalla botte si presenta piatto, molto secco, di gradazione intorno al 5% vol. alc. e con aromi e sapori dalle sfumature uniche e introvabili, nel loro insieme, in qualsiasi altra bevanda del pianeta. Aromi e sapori inusuali che possono a volte ricordare il metallo, il formaggio ammuffito, il limone, l’aceto, il sudore, le carte da gioco vecchie, il sangue, la carne in scatola, gli stracci bagnati e così via! Aromi e sapori che, lo ammetto, possono risultare ardui e di difficile fruizione per il bevitore senza esperienza ma che, dopo un po’ di “allenamento” e di “dedizione” possono a volte attaccare una malattia che per me è stata irreversibile e che mi ha fatto intraprendere, grazie a Dio, un esaltante cammino, ormai senza ritorno. Il lambic piatto, una volta vera e propria “bevanda del popolo” oggi giorno viene quasi tutto assemblato per produrre la gueuze (poi vi spiego) ed è sempre più difficile da trovare. Si contano ormai al massimo sulle dita di due mani, i piccoli, romantici caffè (che definire “basici” non rende del tutto l’idea) nei quali poter vivere l’eccitante esperienza di assistere ad un semplice ma antico gesto: lambic di pochi mesi spillato in una brocca di ceramica direttamente da una vecchia botticella e poi finalmente nel nostro trepidante bicchiere.
La Gueuze
Detta “lo champagne del Belgio” la spumeggiante gueuze (geuze in fiammingo) nasce dall’assemblaggio di due o più lambic di età diversa, effettuato per lo più dagli stessi produttori ma in alcuni casi quest’arte viene praticata da puri assemblatori che acquistano il lambic dai produttori che preferiscono. La gueuze prende il nome probabilmente dal termine “gueux” (pezzente), perché nella regione era la bevanda dei poveri mentre il vino trovava posto solo sulle tavole dei potenti.
Le caratteristiche aromatico-palatali sono vicine a quelle del lambic sopra descritte ma la fermentazione supplementare, oltre alla frizzantezza, conferisce alla gueuze una complessità e una finezza molto più marcate. L’assemblatore di lambic deve assolutamente avere una sensibilità olfattivo-gustativa molto sviluppata (spesso innata o ereditata) verso questa bevanda per riuscire a trovare la “propria” gueuze, quella e solo quella che lo possa soddisfare ed identificare. Una sensibilità e una unicità che paragonerei a quella di un musicista che ricerca il proprio “suono” nella pratica di uno strumento. Un detto locale sentenzia “un vrai gueuze doit puer” (una vera gueuze deve puzzare”) e questa “puzza” deve essere padroneggiata dall’artista-assemblatore che vuole dare un’impronta originale alla sua creatura.
La gueuze tradizionale (con 5-6% vol. alc.) si ottiene dalla rifermentazione in bottiglia di una miscela di lambic giovani, che apportano carboidrati fermentescibili mentre i lambic invecchiati contengono le destrinasi, necessarie all’idrolisi delle destrine. L’assemblaggio è una vera e propria arte: il birraio sceglie i componenti della miscela tenendo conto delle loro caratteristiche di gusto ed acidità al fine di ottenere un prodotto che, dopo la rifermentazione e la maturazione, abbia le caratteristiche tanto desiderate. Lo scopo di quest’appassionante miscelazione è quello di ricostituire la frazione destrinica da parte del lambic giovane in modo da permettere la rifermentazione in bottiglia con produzione di CO2. Ovviamente le proporzioni di lambic giovani e vecchi variano da un birraio all’altro. Sempre che non stiano mentendo (cosa comune nei birrai di tutto il mondo ma molto accentuata in quelli belgi, gelosi di cotanta tradizione), alcuni birrai indicativamente utilizzano il 50% di lambic di un anno, e un quarto di due anni e un quarto di tre anni mentre altri preferiscono mettere due terzi di lambic di un anno e un terzo di lambic invecchiato due o tre anni e altri più di nove decimi di lambic di due anni e solo un decimo di lambic che ha fermentato solo per qualche settimana.
Dopo la miscelazione si passa all’imbottigliamento cui segue la rifermentazione che dura circa 4-6 mesi con un metodo quindi simile a quello usato per lo spumante italiano metodo classico. Le bottiglie coricate nelle buie cantine riposano indisturbate finché si deciderà di portarle al tavolo, sempre nella stessa posizione orizzontale, maneggiandole delicatamente prestando la massima cura per non agitare i lieviti depositatisi. Quanti bambini belgi hanno preso uno scappellotto dai loro padri per non aver rispettato questa primaria fondamentale regola! Scappellotti che andrebbero ancora oggi dati a quei (numerosi) gestori di caffè che non istruiscono debitamente il loro staff.
La Kriek
La kriek tradizionale nasce dall’aggiunta di ciliegie acidule intere al lambic. Tradizionalmente vengono utilizzate griotte (per essere più precisi) che appartengono alla varietà di Schaerbeek, a nord-est di Bruxelles, hanno frutto piccolo, nocciolo relativamente grande, gusto acidulo e polpa dal bellissimo color rosso intenso. Ai giorni nostri sono però limitatamente coltivate nella zona di Gorsem, Tienen e Sint Truinden, rendendo necessario il ricorso a importazioni dai paesi dell’est (Polonia e Macedonia) le cui varietà di ciliegie però hanno frutto più grosso e meno acidulo di quelle di Schaerbeek. Il metodo tradizionale prevede l’utilizzo di ciliegie intere in quantità pari a circa 20-30 kg ogni 100 litri di lambic, che vengono poste in botti riempite poi con lambic invecchiato dai 12 ai18 mesi . Gli zuccheri apportati dalla frutta fanno partire una seconda fermentazione che si rivela molto tumultuosa con produzione di abbondante schiuma. Dopo circa 5-6 mesi di macerazione, durante la quale avviene tra l’altro l’estrazione dei tannini e formazione di benzaldeide, responsabile della spiccata nota di mandorla avvertibile in alcune kriek, si procede all’imbottigliamento come per la gueuze, cioè miscelando alla kriek una quantità di lambic giovane per la rifermentazione in bottiglia.
La leggenda, incrociata con la Storia, dice che la kriek fu inventata da un soldato originario di Schaerbeek, gran bevitore di birra, che ai tempi delle Crociate si recò in Terrasanta a combattere gli infedeli per liberare il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Qui scoprì e apprezzò il vino rosso come il sangue di Cristo e al ritorno, in preda alla nostalgia, decise di lasciar macerare e fermentare nella birra (sua bevanda abituale) le ciliegie del suo giardino, creando così la prima kriek della storia. Leggende a parte, una kriek autentica, dall’irresistibile color rosso vivo, profumata e acidula, può rappresentare un aperitivo raffinato o, in mano ad un bravo chef, un ingrediente decisivo per piatti tradizionali come la celebre e squisita “faraona alla kriek”, senza dimenticare i desserts come il voluttuoso “zabaione tiepido alla kriek”. Una curiosità per finire: per attenuare la decisa punta di acidità, un tempo si usava aggiungere nel bicchiere una zolletta di zucchero che veniva poi frantumata per mezzo di un antico strumento, simile ad un pestello di metallo, chiamato “stoemper”.
La Framboise
Dall’aggiunta di lamponi freschi al lambic in quantità variabile, a seconda del produttore, tra 20 e 35 kg per cento litri, si ottiene la framboise tradizionale, il cui processo produttivo è lo stesso della kriek ma tenendo ovviamente conto della diversa consistenza tra i due frutti.
I lamponi infatti si decompongono nel corso della fermentazione e i piccoli semi possono creare qualche piccolo problema al momento della filtrazione. Talvolta, per rendere più intenso il caratteristico colore rosé, viene aggiunta una piccola percentuale di kriek al momento dell’imbottigliamento.
La framboise prodotta con metodi tradizionali, dall’aspetto elegante e dall’aroma delicato, si presenta in bocca ben più “dry”, tagliente ed astringente con decise punte di acidulo che la rendono perfetta come aperitivo per un pranzo raffinato.
Il Faro
Il faro (pronuncia farò), vera e propria bevanda delle classi meno abbienti di Bruxelles e dintorni, era così popolare nel diciannovesimo secolo che una sciagurata decisone dei governanti di allora di aumentare (siamo nel 1842) il prezzo del Faro di un solo centesimo, provocò una vera e propria insurrezione (paragonabile a quella del pane, nel seicento, di manzoniana memoria) che portò gli incauti autori del crimine a riportare al più presto l’irrinunciabile bevanda al vecchio prezzo con conseguenti grandiosi festeggiamenti e processione per le strade di Bruxelles con bisboccia e sbornia finale (a base di Faro ovviamente) al caffè “Au Duc Jean”!
Il Faro (il cui nome sembra derivi dall’omonima città portoghese anche se alcuni storici lo fanno risalire alla parola latina “farina”) veniva prodotto dalle birrerie o dai singoli gestori dei caffè, aggiungendo al lambic zucchero candito bruno o melassa. Tagliato con una birra leggera (a volte prodotta dalla seconda utilizzazione delle trebbie) e spesso allungato con acqua dava vita alla Mars, una bevanda popolarissima all’epoca, ancor più a buon mercato, che da molti decenni è ormai scomparsa.
Lambic con altri tipi di frutta
Alle tradizionali kriek e framboise, si sono aggiunte successivamente numerosissime variazioni sul tema: dalle raffinate “druiven lambic” con aggiunta di acini di uva alla prorompente, sciagurata (ma molto remunerativa) moda attuale di addolcire in modo snaturante l’acidità del lambic con zucchero e ogni sorta di succhi e sciroppi di frutta come cassis, albicocche, fragole, banane, prugne, ananas, limone e chissà cos’altro ci aspetta. Vorrei stendere, infine, un velo pietoso sul lambic al the, definito da uno dei pagatissimi “guru” della birra “novità rinfrescante” (!). Spesso produttori che per vil denaro (altri dicono per “sopravvivenza”), sfornano questi discutibili cooler, producono anche una piccola percentuale della “real thing” e questo crea confusione tra i consumatori meno smaliziati.
PANORAMICA SUI PRINCIPALI PRODUTTORI DI LAMBIC
Quanti birrai attualmente producono o assemblano lambic ? Solo undici è la preoccupante risposta. Se poi si considera che solo tre, sottolineo tre, non ricorrono a dolcificanti, filtrazioni, pastorizzazioni e tagli vari, la risposta diventa ancor più drammatica.
E pensare che a inizio secolo si potevano contare più di 180 tra produttori, puri assemblatori e assemblatori-gestori di caffè. Nella sola città di Bruxelles erano attive ben 45 birrerie che producevano lambic ed ancor oggi è possibile trovare alcuni dei vecchi edifici, pregnante testimonianza di archeologia industriale.
Quali sono state le cause di questa decimazione? Molteplici: l’età avanzata dei proprietari, spesso senza figli o con figli che non volevano fare un lavoro duro e dal futuro incertissimo, l’acquisizione da parte di birrerie più grandi o da multinazionali, ma soprattutto la esponenziale diminuzione del consumo di lambic e dei suoi derivati da parte del popolo belga (in particolare dei giovani) che ha portato all’attuale consumo di oltre il 70% di anonime pils.
Dato scioccante e preoccupante se si tiene conto delle straordinarie ed uniche tipologie che il Belgio può, anzi deve, vantarsi di avere, autentico ed inestimabile patrimonio che rischia seriamente di snaturarsi in tempi brevi prima di estinguersi ancor più rapidamente in nome, come sempre, del vil denaro.
CANTILLON (www.cantillon.be)
Come non partire dal più fiero e tradizionalista dei produttori di lambic? Il mitico Jean-Pierre Van Roy, “mio padre putativo”, officia dal 1970 nel suo tempio-museo in Rue Gheude ad Anderlecht, cinque minuti a piedi dalla Gare du Midi. Jean-Pierre. E’ il marito di Claude, la nipote del leggendario Père Cantillon che nel 1900 si installò in rue Gheude, dapprima per imbottigliare e vendere lambic di altri produttori, per poi tramandare quest’arte ai figli Marcel e Robert che cominciarono a produrre ed assemblare il proprio lambic nel 1937. Marcel, padre di Claude, si ritirò nel 1968 e due anni dopo il genero Jean-Pierre Van Roy cominciò la sua grande avventura che ancor oggi, assieme al talentuoso figlio Jean (mastro-birraio dal 2001), lo vede assoluto protagonista sulla scena del lambic tradizionale.
Il lambic Cantillon è “rude” e verace con note agrumato-acetiche riconoscibilissime. La sontuosa Broucsella Grand Cru è il solo lambic piatto imbottigliato al mondo (tre anni di invecchiamento) e La Gueuze 100% lambic è acida senza compromessi con un caratteristico corpo watery, mentre la nuova versione Bio (vecchio pallino di Jean-Pierre che ora produce e continuerà a produrre esclusivamente prodotti Bio) abbina al “formaggiato” lievi punte di erbaceo-amarognolo nel retrogusto. Il Faro è irresistibile. La Kriek è di una finezza olfattivo-gustativa fenomenali mentre la tagliente Rosé de Gambrinus al lampone può essere un aperitivo di prestigio.
Chi immagina che Jean-Pierre e figlio si limitino a produrre classici si sbaglia di grosso in quanto ricercano sempre qualche nuovo prodotto come testimoniano le raffinate Vigneronne e St. Lamvinus con acini di uve bianche (Moscato e altre) la prima e uve rosse (Merlot e Cabernet) la seconda, come la delicata Fou Foune (in francese è l’organo genitale femminile) con albicocche denocciolate e la originalissima Iris che è l’unico prodotto non-lambic in quanto viene impiegato solo malto d’orzo.
Altri gioielli sono le gueuze, kriek, framboise della cuvée Lou Pepe (dal nomignolo di Jean-Pierre) in cui si assemblano diversi lambic di due anni senza aggiunta di lambic giovane ma bensì di un “liqueur sucré”. Altre gemme sono, infine, la Loerik (pigro in fiammingo) con lambic che fermenta più lentamente e la ammaliante Soleil de Minuit con aggiunta di hjortron (rubus chamaemorus) una bacca polare, per il magnifico pub Akkurat di Stoccolma.
Ma non finisce qua: Jean gran tifoso (come il padre) della squadra di calcio dell’Union St. Gilloise, ha creato una gueuze speciale, per il centenario della vincita del primo scudetto, usando luppolo più giovane che conferisce una punta d’amaro particolarmente interessante. Chicca finale: Jean-Pierre ogni tanto si diletta a produrre un finissimo aceto di kriek lasciando di proposito una botte di kriek aperta in modo da favorire lo sviluppo dei batteri acetici. La birreria che produce meno di 1.000 hl l’anno, si fonde in modo naturale con il Musée Bruxellois de la Gueuze inaugurato nel 1978, che riceve ogni anno più di 25.000 visitatori che, dopo un interessantissimo tour tra attrezzi originali del XIX° secolo, hanno l’appassionante opportunità di degustare una gueuze o una kriek fattecome Dio (e non il denaro) comanda ed acquistare squisite gelée alla gueuze, alla kriek e alla Rosé de Gambrinus.
GIRARDIN
Con la scomparsa di Louis Girardin nel settembre 2000, il mondo del lambic perde uno dei suoi più intransigenti protagonisti. Ora i figli portano avanti la tradizione iniziata nel 1882 nella birreria-fattoria di Sint-Ulriks-Kapelle, producendo rinomato lambic per piccoli caffè della zona e per gli assemblatori mentre in bottiglia propongono una gueuze tradizionale (etichetta nera), acidula ma rotonda nel gusto con un caratteristico fruttato di mela, una versione filtrata (etichetta bianca) e una kriek e una framboise senza infamia e senza lode.
Curiosamente producono anche una pils chiamata Ulricher Extra. La produzione complessiva non supera i 4.000 hl. l’anno. Si è temuto recentemente che la birreria interrompesse la produzione a causa di alcune leggi comunitarie in materia di igiene che stanno angustiando tutti i produttori di lambic, ma per fortuna, sembra che, almeno per ora, l’allarme sia rientrato.
BELLE VUE (Groupe InBev www.inbev.com )
Dalla gloriosa storia, fondata nel 1913 da Philemon Vandestock (mai più tornato dai campi di concentramento nazisti), la Brasserie Belle Vue è dal 1990 saldamente nelle mani del colosso Interbrew ora InBev. Produce lambic nel modernissimo stabilimento di Zuun e lo fa maturare nel vecchio edificio di Molenbeek-Saint-Jean per poi filtrare e pastorizzare tutto o quasi (producono una ridicola percentuale di gueuze tradizionale acida chiamata Sélection Lambic per puro fine propagandistico). La produzione di oltre 300.000 hl. l’anno comprende gueuze, kriek e framboise addolcite che di tradizionale hanno ben poco, ma che si vendono alla grande, distribuite dappertutto in Belgio ed esportate in molti paesi esteri.
HORAL
Nel 1997 nove produttori di lambic del Pajottenland si associarono in HORAL (Hoge Raad voor de Ambachtelijke Lambikbieren cioè Alto Consiglio per le birre lambic artigianali) con lo scopo principale di proteggere la gueuze tradizionale riuscendo ad ottenere la denominazione di “Oude Geuze” e “Oude Kriek” per i prodotti rispondenti all’antico metodo di produzione (utilizzo di 100% lambic senza filtrazioni, pastorizzazioni e aggiunte di sciroppi o succhi di frutta).
HORAL organizza periodicamente i “Tour de Geuze”, percorsi mirati per visitare, in una sola giornata, tutti i produttori associati che aprono le loro birrerie ai numerosi visitatori, organizzando visite guidate in un clima di festa con musica e specialità culinarie locali.
Passiamo ora in rapida rassegna questi produttori.
Purtroppo si sono ora ridotti ad otto per la dolorosa chiusura da parte del leggendario Henri Vandervelden della gloriosa birreria OUD BEERSEL (www.oudbeersel.com). L’associazione belga Zythos, nata dalle ceneri dell’OBP (Obiectjeve Bier Proevers) si è tempestivamente attivata, con una petizione, per salvare questo autentico pezzo di Storia locale per evitare che cada in mani “sacrileghe”. L’adiacente mitico, straordinario caffè “In ‘t Bierhuis” che serviva i prodotti (lambic, gueuze e kriek) della birreria è ormai tristemente diventato un negozio di fiori e ogni volta che ci passo davanti mi viene da piangere.
3 FONTEINEN (www.3fonteinen.be ): Armand Debelder, presidente della citata HORAL, è una personalità di spicco nel suggestivo panorama della gueuze tradizionale a fermentazione spontanea. Il padre, il mitico Gaston, uno dei “nasi” più fini mai esistiti nell’assemblare lambic, iniziò a Beersel nel 1953 l’antico mestiere di “assemblatore” e trasferì al figlio Armand i segreti del mestiere. Armand rivelò ben presto il suo talento, assemblando lambic di Girardin, Boon e Lindemans e creando una “gueuze” di una finezza eccezionale che gli valse nel 1993 l’ambito trofeo dell’OBP, l’associazione che promuoveva la birra belga tradizionale. La fine del secolo ha visto la nascita della straordinaria “Millenium Gueuze” nata da una stretta collaborazione con Willem van Herrewegem della birreria De Cam. Tale collaborazione continua attualmente con successo con il giovane nuovo birraio Karel Goddeau, cresciuto proprio alla scuola di Armand. Da tempo Armand ha dato impulso alla sua produzione acquistando un gran numero di stupende botti dalla celeberrima birreria boema Pilsner Urquell e cominciato anche a produrre il proprio lambic che darà un’impronta ancor più personale alla sua gueuze. Recentemente si è dedicato completamente alla birreria, lasciando al fratello Guido la gestione del rinomato omonimo storico ristorante, oggi vero e proprio tempio della cucina alla birra, ma in passato autentico caffè letterario, sede del movimento artistico “De Mijol” fondato da celebri scrittori fiamminghi come Herman Teirlinck, Maurice Roelants, Ernst Claes e altri. Nel ristorante è possibile trovare tutti i prodotti “Drie Fonteinen” tra i quali citerei il tradizionale Faro, la finissima Gueuze e la straordinaria Kriek, ora anche in versione lusso con ciliegie di Schaerbeek.
FRANK BOON produce lambic a Lembeek dal 1977 dopo aver ripreso la birreria René De Vits. La produzione attuale supera i 5.000 hl. l’anno. Legato a Palm (www.palm.be ), ora alla sua Oude Geuze (dall’indovinato nome di Mariage Parfait), di buon livello anche se troppo alcolica (8%) per non aver usato zucchero, affianca versioni addolcite di scarso interesse per il purista ma di enorme importanza per il suo commercialista. Nel 1997 Willem Van Herreweghem, ingegnere alla birreria Palm, comincia ad assemblare lambic a Gooik nel centro culturale De Cam. Nel 2000 subentra il giovane Karel Goddeau, pupillo di Armand Debelder che durante la settimana lavora alla birreria Slaghmuylder di Ninove e nel weekend assembla lambic ottenendo una Oude Gueuze ancor verde ma promettente e una Oude Kriek che lascerà il segno.
A Dworp dal 1896 officia la famiglia HANSSENS. Oggigiorno il mitico Jean Hanssens, grande naso per assemblare lambic e i suoi eredi naturali la figlia Sidy e il genero John Matthys producono una Oude Geuze dall’aroma inconfondibile di uva fresca e di formaggio brie e una Oude Kriek molto accattivante che spesso viene accusata di contenere saccarina. La originale rosé Oudbeitje con fragoline di bosco ha diviso gli esperti, mentre il blend tra un idromele inglese e la gueuze ha generato un discutibile ibrido chiamato “Mead the Gueuze” destinato al solo mercato americano.
La famiglia DE KEERSMAEKER di Kobbegem è legata al lambic almeno fin dal 1640 ! Attualmente legata ad Alken-Maes (www.alken-maes.be ), produce (50.000 hl. annui) sotto il popolare nome Mort Subite una Oude Geuze apprezzabile, ma il grosso della produzione spetta a Mort Subite addolcite da zucchero e succhi vari.
Lo stesso fa TIMMERMANNS (12.000 hl. annui) a Vlezenbeek, legato a John Martin’s (www.anthonymartin.be).
Anche LINDEMANS (www.lindemans.be ) di Vlezenbeek (30.000 hl per anno) punta tutto sui prodotti addolciti che, a parte la discutibile Tea Beer, sa rendere più accattivanti di quelli dei suoi colleghi. Produce un buon lambic che poi vende a diversi assemblatori. A parte una rarissima “gueuze fond” fornita allo stupendo caffè-ristorante “De Heeren van Liedekercke”, Lindemans produce una Oude Gueuze chiamata Cuvée René che ha avuto successo negli USA.
Infine va citato DE TROCH (www.detroch.be) di Wambeek che ha invaso (5.000 hl. l’anno) il mercato interno ed estero con versioni zuccherate e aromatizzate ai più svariati tipi di frutta, sotto il nome ammiccante di Chapeau.
In Belgio altri prestigiosi nomi di birrerie ormai dismesse continuano a rivivere su etichette di altri produttori (non solo nel caso di birrai di lambic) tramite acquisizioni, rifacimenti di antiche ricette ma più frequentemente tramite una semplice azione di diversa etichettatura di una stessa birra (deprecabile fenomeno tipico purtroppo di molte birrerie belghe). Esempi emblematici legati al lambic sono De Neve di Schepdaal (Interbrew), Eylenbosch di Schepdaal (Alken-Maes), Moriau di Sint-Pieters-Leeuw (Boon), De Koninck di Dworp (Boon), Wets (Girardin). Troviamo anche due produttori “extra-muros” cioè fuori dal Pajottenland, nelle Fiandre Occidentali, come Van Honsebrouck (St. Louis) di Ingelmunster e Bockor (Jacobins) di Bellegems ma, con l’eccezione di una pretenziosa “St. Louis Geuze Fond” tradizionale prodotta dal primo, ci troviamo davanti alle solite lambic addolcite.
Un cenno infine sul discutibile “plambic” (pseudo-lambic) di alcuni piccoli produttori, per lo più homebrewers (specie americani) che aggiungono al mosto una coltura di lieviti selvaggi in commercio o “riciclati” da gueuze a fermentazione spontanea. I giapponesi amano molto la gueuze e la kriek tradizionali e quindi non mi stupirei di dover fronteggiare in futuro un’invasione di plambic dal Sol Levante!
Conclusione: Il termine lambic, che si trova indiscriminatamente sia su etichette di prodotti tradizionali che contengono lambic al 100% e sia quelle di prodotti che di lambic ne hanno visto ben poco o proprio per nulla, crea demagogicamente confusione nel consumatore. Se poi si tiene conto che la vera gueuze è acida e che quella falsa è dolce non è quindi difficile prevedere che un aumento sempre crescente di prodotti addolciti (preoccupante il recente proliferare di terrificanti kriek dolcissime) accrescerà i rischio di estinzione di questo patrimonio del popolo belga e di conseguenza di tutta l’umanità.
L’autore ringrazia sentitamente Stefano Cossi per il prezioso aiuto
articolo pubblicato sull’Annuario Birre Italia 2004 -2005
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