In quest’articolo Lorenzo Dabove (detto Kuaska), uno dei maggiori esperti e degustatori di birre artigianali e birre di qualità, fa un’ampia analisi del fenomeno emergente delle birre IGA (Italian Grape Ale), che è stata riconosciuta come tipologia esclusiva per il nostro Paese. Nell’articolo Kuaska coinvolge i principali ispiratori e produttori italiani di questa tipologia birraria.
I birrai pionieri che, a metà anni 90, diedero inizio, con coraggio ed incoscienza, ad un movimento così esaltante che ha portato a risultati che nessuno all’epoca avrebbe potuto immaginare, si ispirarono per i loro primi passi a stili di paesi di lunga tradizione come il Belgio, la Germania, la Rep. Ceca e il Regno Unito.
Ben presto però si cominciò a parlare di un nascente “Made in Italy” grazie a fattori come la creatività e la fantasia tipicamente italiane associate all’utilizzo di prodotti locali “a centimetro zero” come cereali, farro e non solo, frutti, castagna in primis, ortaggi, erbe e spezie per poi, fisiologicamente ed ineluttabilmente direi, approdare al legame con il mondo del vino che ha dato vita ad uno stile, chiamiamolo impropriamente così, che sta regalando a tutto il movimento artigianale italiano, una visibilità e un riconoscimento qualitativo e innovativo che ci pone in una situazione di leadership in quella che viene ormai definita la “Craft Beer Revolution” che sta gradatamente contagiando ogni angolo del pianeta.
La consacrazione arrivò un paio di anni fa con la proposta di inserimento del nostro nuovo stile, definito “Italian Grape Ale” nel prestigioso BJCP (Beer Judge Certificate Program) che rappresenta una sorta di disciplinare ufficiale dei numerosi, ormai oltre 100, stili birrari riconosciuti.
È indubbiamente bello e appagante leggervi “Italian” dopo aver sempre letto Belgian, French, German, Bohemian, English, American o addirittura Australasian!
Il merito di questa conquista va in gran parte condiviso tra i nostri birrai e un combattivo e appassionatissimo ragazzo salernitano che corrisponde al nome di Gianriccardo Corbo, attualmente presidente MoBI, il movimento nazionale dei consumatori della nostra adorata bevanda.
Da gran fautore della libertà di espressione e nemico giurato della censura, quale credo fermamente di essere, quando scrivo un articolo, amo lasciare la parola ai protagonisti senza cambiare una virgola di quello che mi hanno detto o scritto e così farò con Gianriccardo Corbo.
Il Beer Judge Certification Program (BJCP) è una organizzazione nata negli Stati Uniti nel 1985 con l’obiettivo di promuovere la diversità degli stili birrari, catalogarli e formare giudici-degustatori che potessero essere impiegati nelle competizioni birrarie. Attività fondamentale del BJCP è redigere la guida agli stili birrari che racchiude e cataloga gli stili birrari prodotti in tutto il mondo. Va detto che non è l’unica guida agli stili ma è sicuramente la più riconosciuta a livello globale.
Già da un po’ di anni il BJCP ha travalicato i confini statunitensi ed è ampiamente diffusa in tutti i continenti. Italia compresa, dove grazie al Movimento Birrario Italiano (MoBI) ogni anno viene organizzato un esame che, se superato, conferisce la qualifica di giudice.
Nel 2011 ho superato l’esame BJCP e ne sono diventato membro rappresentate per il nostro Paese. Nel 2014, il presidente BJCP Gordon Strong convoca una riunione con i rappresentati di vari Paesi europei con l’obiettivo di meglio cesellare/definire gli stili europei in occasione della imminente revisione delle linee guida agli stili. In quella occasione presento la descrizione di uno stile italiano che a mio avviso necessitava di valorizzazione internazionale. Lo battezzo senza pensare molto all’acronimo che ne sarebbe derivato: Italian Grape Ale… per gli amici IGA! Volevo che la parola “Italia” comparisse nella guida. L’Italia non è un Paese storicamente votato alla birra, si sa, ma è anche vero che è uno dei Paesi europei, che più di tanti, ha guidato la rivoluzione birraria in Europa negli ultimi 5-10 anni. Insomma, ci dovevamo essere, ce lo meritavamo. Per la descrizione dello stile prendo in esame una buona parte delle birre al mosto d’uva presenti nel 2014. Molte le birre di Barley, Montegioco, Loverbeer… ma alla fine non sono poi tantissime in rapporto al numero di birrifici presenti al tempo.
Sottopongo lo stile al BJCP, sottolineo quanto sarebbe importante per il nostro movimento avere il riconoscimento da parte di una organizzazione così importante e che sicuramente avrebbe promosso il movimento stesso dentro e fuori i propri confini. Mi vengono mosse due obiezioni:
- lo stile non è ancora prodotto in maniera così diffusa a livello professionistico ma anche a livello hobbistico (questo era vero!);
- mi viene fatto presente che l’uva è un frutto e che c’è già una categoria nel BJCP che ne prevede l’utilizzo: la categoria delle fruit beer.
Ammetto che fino a quel momento non avevo mai pensato all’uva come un frutto. Ok, lo è biologicamente, ma per un italiano l’uva non è alla stregua di una banana o una arancia. L’uva è identità territoriale, è identità di persone, è diversità. L’Italia è il Paese che conta il maggior numero di vitigni autoctoni al MONDO! Spendo molte parole per far capire questo concetto e mi sembra di convincerli. Posso capire che per un americano questo concetto non sia così immediato.Passa qualche mese, nel 2015 viene pubblicata la guida agli stili birrari del BJCP. È una revisione maggiore, una delle più pesanti degli ultimi anni e… ci siamo anche noi! Le Italian Grape Ale diventano di maggior dominio pubblico e da lì il numero di produzioni birrarie a base di mosto d’uva, cotto o fresco, si moltiplicano a dismisura. Sarebbe utile fare un censimento delle IGA ad oggi presenti per avere una misura della dimensione del fenomeno, ma certo è, sono tante! MoBI ogni anno promuove un concorso dedicato alle IGA. A Birra dell’Anno, concorso dei birrifici italiani, ci sono ben due categorie di IGA (uve a bacca bianca e bacca rossa). A partire dall’ultimo Brussel Beer Challenge, uno dei maggiori concorsi al mondo, l’IGA è presente come categoria e a vincere quest’anno è stato un americano. Il fatto che sia stato un NON italiano a vincere dà maggiore lustro poiché rappresenta una attestazione di riconoscimento anche oltre oceano. Noi produciamo American Pale Ale e gli americani Italian Grape Ale. È questa la magia della birra, non produrre confini.Bellissimo inoltre il festival annuale dedicato alle IGA e organizzato da Gianni Tacchini: “Campi di Birra” che nel 2018 si terrà dal 4 al 6 maggio a Campi Bisenzio (Firenze). Segnatevelo!A distanza di 3 anni, come movimento birrario, abbiamo il dovere di proteggere e consolidare questo stile che è entrato a far parte della nostra non molto lunga, ma importante, storia birraria. Probabilmente, se non avessimo apposto noi il marchio italiano alle birre al mosto d’uva, prima o poi l’avrebbero fatto gli americani o i francesi. Indubbio che sarebbe stato una specie di ratto delle sabine. Detto ciò, non c’è modo migliore che concludere con lo slogan ormai più famoso della birra stessa: viva la IGA!
Ringrazio Gianriccardo e riprendo la parola dicendo subito come, nella mia lunga militanza in trincea, io ricordi di aver visto e assaggiato per la prima volta una birra italiana legata al mondo del vino, a Piozzo verso fine anni 90, nell’ex pollaio della famiglia di Teo Musso, adibito a prima cantina provvisoria. Teo l’aveva chiamata “Perbacco” impiegando uve Nebbiolo, se ricordo bene. Non fu mai messa in commercio ma rammento nitidamente come fosse davvero interessante e innovativa nella sua ardita sperimentazione. Curioso se non paradossale sottolineare come oggi Teo si dissoci fermamente da questa tendenza, affermando che lui non fa e non farà mai una IGA.
Se però dobbiamo nominare chi sdoganò questo legame aprendo la via poi seguita in modo sempre molto personale ma non sempre con la dovuta riconoscenza da tanti bravissimi colleghi, nessuno può avere dubbio alcuno: Nicola Perra che a Maracalagonis, “Mara” per comodità, nel suo BIRRIFICIO BARLEY, fece conoscere a me per primo, a tutta Italia poi ed infine a tutto il mondo, Stati Uniti in testa, la sapa, mosto cotto che in Sardegna si usava da sempre per farcire dolci e biscotti.
Nicola ebbe l’intuizione di usare la sapa, dapprima di Cannonau e successivamente con uve di altri vitigni sempre strettamente autoctoni, per una serie di straordinarie birre griffate BB che divennero le capostipiti delle IGA come vengono ormai definite le Italian Grape Ale. La sua natura di sperimentatore lo ha portato più recentemente a nuove birre prodotte applicando una tecnica assolutamente inedita con l’utilizzo del mosto fiore concentrato a freddo, ispirata da vignaioli che producono vini bianchi da uve aromatiche.
Superfluo sottolineare il legame di profonda amicizia e reciproca stima che mi lega a Nicola. Dalle risposte alle mie domande che seguono, traspare tutta la sua personalità fatta di genuinità, sano orgoglio e stretto legame con la sua isola e la sua gente.
Riporto qui integralmente l’intervista che espressamente gli feci per questo articolo.
Nicola, dimmi quando, perché e in che modo hai legato i due mondi (vini e birre) per la prima volta.
Diversi anni fa, quando facevo birra in casa utilizzai per la prima volta su una base da Imperial Stout una sapa che avevo in casa, fatta con mia madre, dopo una delle nostre vendemmie (allora avevamo ancora le vigne…). Erano gli ultimi anni ‘90 – primi anni 2000. Era una sapa di uve bianche miste, tra Nuragus, Trebbiano e qualcos’altro che non ricordo.
L’idea mi era venuta considerando che il mosto cotto d’uva poteva, a mio avviso, essere un materiale fermentabile interessante per i risvolti sensoriali, che poi avrebbe potuto conferire alla birra. Quello però era un periodo di totale sperimentazione, al punto che non pensavo ancora di abbinare l’uva alla ricetta di base di malti e luppoli. Così, su quella base di Imperial Stout, ci abbinai successivamente la sapa di Cannonau; una combinazione decisamente convincente, al punto che decisi di produrla – dal 2006 – in birrificio col nome di BB10.
Parlami delle tue birre in cui utilizzi uva o suoi derivati. Quali sono quelle, a tuo avviso, più riuscite o che ti abbiano soddisfatto maggiormente?
Memore delle sperimentazioni pre-birrificio che portarono a quella che in birrificio è diventata la BB10, dal 2008 cominciammo a produrre la BB Evò (su base Barley Wine, con la sapa di Nasco). Era ormai chiara – per me – la necessità che l’uva dovesse essere pensata in abbinamento alla ricetta birraria di base, in modo da far emergere adeguatamente l’uvaggio utilizzato. Ed ecco che, nel 2011 con la BB9 la strada in tal senso era stata “spianata” dalle precedenti, ma la difficoltà da vincere era creare una ricetta che andasse bene fin da subito con la sapa di uve malvasia di Bosa, mai sperimentata prima. Quella fu la sfida che forse mi appagò di più, al punto che quella prima ricetta non la modificai mai. Della serie: “buona la prima!”
Un’altra importante sfida fu quella che mi portò a pensare all’utilizzo del mosto fiore, concentrato a freddo, per valorizzare al massimo gli aromi primari di un’uva aromatica. Una tecnica mai usata prima in una birra, ma che “idealmente” presi a prestito dalla cura maniacale che alcune cantine applicano, quando producono grandi vini bianchi da uve aromatiche.
Ed ecco che, dalla vendemmia 2015 partimmo con l’utilizzo del mosto da uve Moscato di Cagliari, ottenuto proprio con questa tecnica, nella BB7 che di fatto aprì la strada ad altre produzioni, come la BB6.
Il risultato è stato praticamente quello atteso, specie quando la birra ha qualche mese alle spalle; ossia, l’uva arricchisce la birra e la sua evoluzione in bottiglia prende molti dei tratti aromatici caratteristici dell’uvaggio.
Ti piace e/o concordi con il termine IGA coniato per il primo stile italiano entrato nel BJCP?
Italian Grape Ale mi piace. L’acronimo “IGA”, decisamente meno 😀.
Futuro delle IGA?
Al di là delle mode del momento, che in questi casi scattano quasi in automatico, credo che ci sarà un’evoluzione interessante. Tanti produttori fanno dei prodotti discutibili, frutto di una carenza progettuale; altri invece hanno immesso sul mercato birre interessanti, che testimoniano una scelta oculata dell’uva ben abbinata alla ricetta di malti e luppoli. Ci sarà una inevitabile selezione dei prodotti, ma ormai le Italian Grape Ale sono una realtà. In evoluzione, senz’altro ma una realtà con cui misurarsi, in Italia ed anche all’estero, cosa che peraltro già accade, specie negli USA.
Detto doverosamente di Nicola come apripista, tra i primi ai quali vengono meritatamente riconosciute attitudini per la ricerca e la sperimentazione nell’affascinante unione tra birra e uva, due nomi non potranno mai essere messi in discussione: Riccardo Franzosi di Montegioco e Valter Loverier di Loverbeer.
Entrambi piemontesi e questo non sarebbe un caso, verrebbe da dire, per i grandi vitigni a cui poter attingere. Forse sarà anche vero ma questa vasta regione è caratterizzata da una diversità di ambienti e quindi da persone che hanno ben poco in comune. Provate, ad esempio, a mettere vicini un novarese, più vicino ad un milanese e un montanaro delle valli cuneesi, con camicia scozzese di flanella.
Riccardo e Valter, grandi amici legati da profonda stima reciproca, sono molto diversi tra loro come, di conseguenza, saranno diverse le loro birre legate all’utilizzo dell’uva, a partire ovviamente dai vitigni impiegati con l’eccezione delle uve barbera ma da zone e produttori diversi.
Ho chiesto il loro autorevole intervento. Comincio con Riccardino (del BIRRIFICIO MONTEGIOCO), così affettuosamente chiamato per la mole imponente.
Quando, perché e in che modo hai legato i due mondi (vini e birre) per la prima volta.
Nei primi anni del duemila durante le fasi di homebrewing e di messa a punto delle ricette per le birre del nascituro birrificio. Il motivo sta nel desiderio di far conoscere alcuni buoni frutti, uve ma non solo, prodotti sul territorio usando le birre come veicolo e/o scusa, con l’obiettivo di creare qualcosa di unico, interessante e di facile beva.
Parlami delle tue birre in cui utilizzi uva o suoi derivati. Quali sono quelle, a tuo avviso, più riuscite o che ti abbiano soddisfatto maggiormente?
Sono partito sperimentando quattro diversi tipi di uva: Timorasso a bacca bianca e Barbera, Croatina, Moscato d’Amburgo a bacca nera. Usando come birra base la Runa, una bionda in stile belga, ho aggiunto a fine fermentazione le uve pigiate, sbollentate e raffreddate. Mentre non avevo dubbi su quella con aggiunta di uva Timorasso, diventata poi la Tibir, per quelle con uva Barbera e Croatina rimasi indeciso tant’è che la prima Open Mind prodotta fu con la Barbera, mentre successivamente, dopo i primi due anni, passai alla Croatina. Quella prodotta con il Moscato d’Amburgo non mi appagava fin da subito e non la rifeci più. Al momento sono le due uve Timorasso (Tibir) e Croatina (Open Mind) che più mi soddisfano anche se le prove di maturazione in botti di legno potrebbero cambiare ancora le carte in tavola.
Ti piace e/o concordi con il termine IGA coniato per il primo stile italiano entrato nel BJCP?
Sicuramente è positivo il fatto che si parli di “italiano” nell’ambito degli stili di birra. Per quanto mi riguarda non lo considero uno stile, troppo diverse tra loro le birre di partenza e quelle ottenute, nel colore, tipi di fermentazione, gradazione alcolica finale, modi diversi di usare le uve, ecc… Forse potremmo parlare di tipicità data dall’utilizzo dell’ingrediente uva molto diffuso nel nostro Paese.
Futuro delle IGA?
Per quello che mi riguarda sicuramente la maturazione in legno. Più in generale credo possa sopravvivere anche nella sua forma “di stile” in seno al BJCP, di certo io continuerò a farle…
Passo la palla a Valter del BIRRIFICIO LOVERBEER.
Quando perché e in che modo hai legato i due mondi (vini e birre) per la prima volta.
Correva l’anno 2002 quando realizzai che i barley wine non erano vini con orzo ma bensì delle birre, questo accese una lampadina. Feci una irish red ale con uva Barbera in cantina da homebrewer. Il risultato non fu esaltante ma fu sufficiente a lanciare la sfida. Molti studi e consultazioni, mi hanno portato poi a scoprire che ovviamente non ero stato il primo a sperimentare l’uva nella birra, anzi era una pratica diffusa in quelle regioni europee appena a nord di dove non si riesce a coltivare uva e quindi non si può fare vino. Nel 2005 è nata la BeerBera come oggi la conosciamo e quattro anni dopo segnava l’inizio della nostra avventura professionale. Abbiamo fatto la prima cotta del birrificio con uva, fermentazione spontanea in tini di legno da 17 ettolitri. Forte no?
Parlami delle tue birre in cui utilizzi uva o suoi derivati. Quali sono quelle, a tuo avviso, più riuscite o che ti abbiano soddisfatto maggiormente?
Tutte ruotano attorno all’uva non fosse altro per l’uso del legno che proviene dal mondo vino. Ma le tre regolarmente in produzione sono tutte molto legate all’uva.
DuvaBeer rappresenta una birra che trae l’ispirazione dai vini parzialmente fermentati. Il nostro obbiettivo è che rimanga dolce come una birra “moderna” ma bilanciata non dall’amaro ma bensì dall’acido.
BeerBera invece è ancora più vicina al mondo di Bacco perché la sua fermentazione spontanea parte dai lieviti che si trovano sulle bucce dell’uva Barbera.
La Nebiulin-a però è la birra che più di tutte riceve le nostre attenzioni: dopo tre anni di affinamento della nostra base denominata da noi “biere du lambic”, una parte viene “blendata” con una più giovane di due anni e una di uno, per fare un tributo alle geuze, ma non basta perché viene aggiunta una quarta parte, di uve nebbiolo provenienti da La Morra dove con le stesse si fa il Barolo. Insomma le nostre birre anche se innovative vogliono raccontare la storia.
Ti piace e/o concordi con il termine IGA coniato per il primo stile italiano entrato nel BJCP?
Non è un segreto che io non ami questo termine. Chi ha voluto questo stile era armato di buone intenzioni e ha tutta la mia stima e la mia approvazione, ma con gli stili ci litigo tutti i giorni. Non abbiamo storia birraria, la stiamo costruendo adesso quindi comunque ben venga uno stile tutto italiano anche se io non lo userò per catalogare le mie creature.
Sorry.
Futuro delle IGA?
Le mode vanno e vengono e si nutrono di tutto ciò che sorprende… finché sorprende, poi si passa a qualcos’altro, inoltre sono birre abbastanza difficili da fare e a volte da comprendere quindi “passeranno” ma alcuni produttori come noi continueranno a proporle perché nate per durare nel tempo.
Alla salute!!!
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Uno spazio tutto suo e molto ampio merita uno dei monumenti delle IGA, l’ormai leggendaria L’Equilibrista di BIRRA DEL BORGO di Leonardo Di Vincenzo. Ho deciso di non intervistare Leonardo perché ci ha regalato un video in rete nel quale ci dice tutto e di più sulla genesi e sulla complessa realizzazione di questa sua straordinaria creazione.
Consiglio vivamente di non perderlo:
L’Equilibrista, dal canale di Birra del Borgo
Sempre in rete, strumento che volutamente non utilizzo quasi mai quando scrivo un articolo, preferendo far ricorso alla mia memoria e al mio vissuto, ho trovato un testo dedicato all’Equilibrista, molto esaustivo per chiarezza e completezza dei dettagli associate ad una indubbia competenza dell’autore, Davide Salsi, creatore del blog UBAG-Una Birra al Giorno.
Ho ripetutamente attaccato i blogger perché detesto da morire l’incompetenza che spesso ci propinano volendo scrivere di argomenti e di campi nei quali si credono grandi esperti sparando spesso delle castronate galattiche che possono risultare pericolose e fuorvianti per un pubblico di neofiti privo di “anticorpi”. Non perdo mai l’occasione di citare in pubblico il mio ormai celebre postulato “se hai un problema cardiaco, leggi un blog di un appassionato di cardiologia o vai da un cardiologo?”
Questa volta, eccezionalmente, voglio fare un clamoroso “outing” includendo il testo integrale che Davide Salsi mi ha gentilmente autorizzato ad utilizzare. Eccolo qua:
“L’Equilibrista” prende forma come idea durante Vinitaly 2008: Tommaso Marrocchesi Marzi (titolare della Tenuta di Bibbiano) non è per sua ammissione un gran consumatore di birra ma si trova a curiosare tra gli stand ed assaggia alcune produzioni di Birra del Borgo; rimane particolarmente impresso dalla Genziana e, parlando con Leonardo Di Vincenzo, nasce quasi come una scommessa la sfida di realizzare una birra con il Sangiovese. Non passa molto dalle parole ai fatti, ed il mosto di Sangiovese dalla vendemmia 2009 viene mescolato a quello della Duchessa (la saison di Birra del Borgo, 50% e 50%) dando così origine al primo lotto (dal nome non molto originale, se googolate un po’) de L’Equilibrista, all’incirca 1600 bottiglie prodotte.
L’anno successivo si replica, con qualche doveroso aggiustamento alla ricetta; il mosto sosta per tre giorni sulle bucce (il risultato è una maggiore concentrazione e un colore simile a quello di uno spumante rosé) e vengono modificate le percentuali del mix: 39% sangiovese, 61% duchessa; i due mosti fermentano assieme nei tini, e dopo due mesi avviene l’imbottigliamento. In questa fase viene aggiunto il “liqueur de tirage”, che contiene un’alta quantità di zuccheri al fine di favorire la rifermentazione in bottiglia e quella che viene chiamata “la presa di spuma”; a questo punto le bottiglie riposano per circa un anno sulle pupitres (supporti di legno con fori dove sistemare le bottiglie a testa in giù), e vengono periodicamente girate a mano (remouage) per favorire l’amalgama di zuccheri e lieviti (da champagne) e far depositare le fecce del lievito verso il tappo, che vengono poi eliminate con il “degorgement”.
La fase successiva è quella della sboccatura; la laboriosa operazione viene effettuata a mano fino al 2010, ma dal 2011 il birrificio si affida ad una ditta specializzata che pratica il metodo “à la glace”: il collo delle bottiglie viene immerso in una soluzione liquida a bassissima temperatura che fa ghiacciare il deposito rendendone più agevole e rapida l’eliminazione. Tutte le bottiglie sono poi rabboccate a mano aggiungendo il “liqueur d’expedition”, nel caso a base di vino, zucchero e distillato di birra (Duchessa). L’ultima fase del processo produttivo è quella della tappatura con il classico tappo a fungo chiuso dalla gabbietta metallica che, anche in questo caso, viene fatta a mano per l’ultima volta con L’Equilibrista 2010.
Ancora un po’ di riposo per le bottiglie, che dopo qualche mese sono finalmente pronte per essere messe in commercio. La birra-champagne non è di certo una novità, basta pensare ad esempio al Belgio ed alla Deus di Bosteels, o alle Mahleur; negli ultimi anni sono spuntate anche in Italia diverse birre che, sebbene non vengano prodotte con il metodo champenoise, utilizzano lieviti da spumante. Birra del Borgo la realizza tuttavia nel 2009, prima del boom di microbirrifici in Italia e mi sembra sia comunque il primo esempio (se sbaglio, qualcuno mi corregga) di birra Italiana che viene prodotta con metodo champenoise, che utilizza mosto di vino e lieviti da champagne. Equilibrista, dunque, ovvero ricerca del punto ottimale d’incontro tra birra e vino, ma anche ricerca di equilibrio tra le varie fasi del suo complesso processo produttivo ed il tempo, il momento giusto in cui metterle in pratica.
Passiamo alla sostanza; elegante scatola di cartone, – il prezzo di questa birra e della sua lunga lavorazione sembra quasi richiederla – si presenta di color rame con marcate sfumature rosa ed ambrate; la piccola schiuma che si forma è grossolana e si dissolve abbastanza rapidamente senza lasciare pizzo nel bicchiere. Il naso è complesso, c’è una azzardata ma riuscita convivenza di sentori legnosi e rustici, di cantina, di ribes ed uva, mela verde, acidità lattica e note dolci di pasticceria, meringa. In bocca è ancora vivacemente carbonata, molto scorrevole, con un corpo da medio a leggero che non è però un preludio ad una bevuta disimpegnata e facile. Al contrario, il gusto si dimostra abbastanza complesso e ricco di sfumature aspre e dolci; l’imbocco è vinoso ed aspro, con note di uva e di ribes, una leggera acidità (lattica) che viene però subito bilanciata da una dolcezza quasi zuccherina che accompagna la parte centrale della bevuta. Al caramello ed alla mela (dolce), fa seguito un finale che vira nuovamente nell’aspro (frutti rossi) ed è caratterizzato da un morbido warming etilico. Non ho paragoni (anche a causa del prezzo che non ne permette un’acquisto così frequente) con esemplari più giovani, ma i tre anni di cantina sembrano averle portato un’interessante struttura che porta un notevole squilibrio verso lo champagne, quasi eclissando la componente “birra”.
Il risultato è però estremamente positivo ed interessante: bevuta fresca è un ottimo aperitivo, mentre riscaldandosi mette in mostra una buona struttura che la rende capace di essere un ottimo accompagnamento a tavola. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di uno champagne che si beve con (quasi) la facilità di una birra; difficile comunque, in una degustazione alla cieca, scommettere di avere nel bicchiere una birra. Sembra avere ancora ottime possibilità d’invecchiamento in cantina, non fosse che con gli stessi soldi, se sapete muovervi, potete acquistare un buon champagne”.
Fare una mappatura completa delle IGA sarebbe praticamente impossibile per l’interesse e l’attrazione che queste birre stanno conquistando, giorno dopo giorno, presso un numero sempre più crescente di produttori di ogni regione della penisola. Invito quindi tutti ad aggiornarsi costantemente tramite l’imprescindibile sito www.microbirrifici.org del pioniere Davide Bertinotti.
Da tempo a PASTURANA, pochi km da Novi Ligure, diventata famosa tra gli appassionati per lo storico festival, giunto alla quindicesima edizione, che si tiene nel secondo weekend di giugno, Simone Sparaggio e il suo team hanno dato vita a birre legate coi vitigni del territorio. Vediamo cosa mi ha detto Simone, birraio molto bravo, di un’umiltà sconfinata in un mondo non scevro di primedonne.
Comincio ringraziandoti di cuore, per esserti ricordato di noi, nel momento in cui, stai per affrontare una disanima sull’effervescente mondo delle IGA, termine per me (approfitto subito!), del tutto appropriato e anche azzeccato. Questa categoria, era diventata quasi una necessità, visto il numero di birrai italiani che si cimentavano in questa direzione. Direi che è anche servito per “sdoganare” e anche “regolarizzare” questa tendenza, che per quanto abbia riscosso da subito un buon successo, tra appassionati e competenti Guru del settore (devo citare qualcuno…?!), ha comunque lasciato in molti l’idea di trovarsi di fronte a intrugli senza un vero motivo d’essere, insomma senza una vera identità/dignità.
Personalmente, ho iniziato a ragionare sui possibili legami tra questi due mondi, già dai tempi della prima Grande Schiuma (che Tu ben ricorderai!) e quindi prima del 2008, anno di costituzione di Birra Pasturana (decennale!). Ai tempi però, ero nella pratica, solamente il “bocia” del grande Fausto Marenco (molto più quadrato e istituzionale rispetto al sottoscritto), per cui, non mi sono mai permesso di proporre birre troppo fuori schema.
Successivamente, trovandomi al timone di BP, ho cominciato a mettere in atto quello che avevo elaborato nel tempo, con piccole prove casalinghe e tante info raccolte in campo enologico. La mia idea era quella di valorizzare dei prodotti di pregio e anche delle esperienze lavorative, che mi circondavano e che mi davano forti stimoli a “sperimentare”. Ovvio quindi (vista la nostra locazione), che sia nata e cresciuta in me, la voglia di provare a far incontrare questi due mondi, mi ricordo bene che al tempo, vivevo la cosa, come quasi un piacevole “obbligo”, dovevo farlo!!!
Il 2009 vede la prima cotta di Filo Forte Oro (9% – tripel ripassata nelle vinacce esauste e minuziosamente preparate, di vino passito, in quel caso Moscato di Strevi). Fortunatamente il successo è immediato (questo mi ha dato ulteriore convinzione sulla bontà del progetto), e nel 2010/11 ci viene riconosciuta, per due anni consecutivi, la medaglia d’oro come miglior birra nella categoria “alla frutta” (IGA sarebbe stato più figo!), a “Birra dell’Anno” a Rimini. In questi ormai dieci anni, la nostra esperienza su birre che ora si possono inserire nella categoria IGA, si è molto allargata.
Abbiamo infatti continuato nella produzione delle Forti Oro, anche se non tutti gli anni, (a volte per condizioni climatiche sfavorevoli, i passiti non vengono prodotti o non hanno le caratteristiche qualitative necessarie). A queste abbiamo affiancato le File Rouge (6,5%), prodotte sempre con l’utilizzo di vinacce, ma in questo caso di vitigni a bacca rossa (Barbera, Nebbiolo, Bracchetto passito), anche queste con un ottimo riscontro. Un capitolo a sé, merita poi la Filare, birra invece decisamente più secca e “beverina”(4,5%), che vede l’utilizzo di un quinto sul totale di mosto vergine di Cortese di Gavi.
Ciò conferisce alla Filare, una nota fresca e acidula, che la caratterizza tra le tante IGA. Questa birra viene prodotta nelle quantità per noi possibili (13 hl), solo nel periodo della vendemmia, ormai ininterrottamente dal 2011. Molto apprezzata e segnalata con vari riconoscimenti, durante questi anni. C’è stato pure tempo per una “one shot”, la credo originalissima Miss Match, una “dry grape stout” con vinacce di Nebbiolo su cui passava un mosto d’orzo torrefatto! Risultato singolare, inizialmente un po’ sbilanciato, ma che una giusta maturazione, ha dato esiti piacevolissimi.
Una dry stout estremamente beverina con un punto di acidità che poteva probabilmente ricordare antiche stout maturate in barili di legno. La nostra ultima nata, dicembre 2017 si chiama “Barriga” (7%) , che come esplicitamente dichiara dal nome, è una IGA (in questo caso una File Rouge, alle vinacce di Barbera d’Alba), successivamente maturata 18 mesi in barrique di rovere che avevano precedentemente ospitato Barbera dei colli Tortonesi. A un primo assaggio, sembra promettente, in attesa comunque della sua naturale evoluzione.
Sono logicamente legato per motivi simili e anche diversi a tutte queste birre, ed è quindi per me difficile dire quale tra queste possa essere la più riuscita e quindi, quella “meglio” la devo ancora fare, e credimi la farò! e poi magari dopo …un’altra!
Come facilmente potrai immaginare (visto quello che ho appena affermato), per me il futuro delle IGA, è garantito. Sicuramente passerà tempo prima che questa tipologia possa acquisire numeri significativi all’interno del mercato già ridotto delle “artigianali” (e forse non li potrà mai raggiungere), ma credo si consacrerà sempre più nel settore top di gamma, con appassionati che vedo vieppiù preparati e disposti a riconoscere il prodotto di qualità. Sempre più spesso, trovo persone preparate sull’argomento, disposte a spendere il giusto, sapendo cosa ci sia alle spalle di certi risultati.
Un birrificio già affermato come il BRÙTON nel lucchese, ha visto crescere la propria reputazione anche grazie alle splendide IGA che ha saputo presentare sul mercato. Lascio subito la parola a Iacopo “Apo” Lenci il pittoresco, simpaticissimo, autentico punk che non so come possa passare sotto il metal detector di qualsiasi aeroporto per la ferraglia che porta sia ai polsi che nelle tasche di quel che resta dei suoi jeans.
Sono figlio di un vignaiolo, mio fratello segue l’attività di famiglia, io no. Ma bevo e amo anche il vino. È stato un po’ scuola per il naso e il palato per me, un po’ ispirazione per la finezza e l’eleganza che voglio dare alle mie birre. Quando iniziai a bere vino, ormai quasi venti anni fa, andavano di moda i grandi Chardonnay siciliani, 15 gradi, viscosi ed opulenti, invecchiati mesi e mesi in legno nuovo. La classica bottiglia che “ammazza come è buono”, ma in cinque non la finivi… Mentre adesso si beve Cerasuolo ed Etna Rosso dalla Sicilia, per la loro acidità, finezza, eleganza.
Ed è esattamente quello che voglio fare con la birra, in un momento in cui siamo ancora alla fase che “se un po’ è buono, di più è meglio”. Per questo già nel lontano 2010, con Andrea Riccio, sodale e birraio del Brùton, decidemmo di lanciarci nella produzione di una IGA. Al tempo, chi si cimentava lavorava su mosti cotti, concentrazioni, vini rossi, invecchiamenti in botte. Ed io, da buon punk e con ben in testa la filosofia di produzione che ci caratterizza, e che con Andrea condivido a pieno, ho deciso di fare l’opposto: una birra “col vino” secca e minerale, citrica e fine, elegante.
Nasce così la nostra Limes, dal nome dedicato al confine dell’impero romano tra appunto i romani, bevitori di vino, ed i barbari bevitori di birra: qui c’è idealmente il loro punto di incontro. Iniziamo con la produzione di un mosto da cereali, solo malto pils che verrà fermentato con lievito Belgian Saison (che noi adoriamo), ad alte temperature fino ai 29 gradi.
Quando siamo quasi a fine attenuazione, quindi con i lieviti belli arroganti e performanti, buttiamo un 25% di mosto di Vermentino stabilizzato a freddo, senza alcun tipo di ulteriore lavorazione, gentilmente concesso dopo innumerevoli tira e molla dalla cantina di famiglia, Fattoria di Magliano.
Ed il finale di fermentazione è vigoroso ed impetuoso! Ma il lievito saison è talmente forte da non lasciare spazio ad altri lieviti selvaggi, quindi una IGA senza off-flavors, pulita e netta.
La scelta del mosto di Vermentino l’abbiamo fatta per valorizzare ad accompagnare le caratteristiche del lievito: ad una base birrosa secca e con esterificazioni estremizzate, con note di acetaldeide, mela verde, crosta di pane, pepe bianco e spezie, abbiamo affiancato un mosto dal pH basso, che sviluppa profumi di frutta esotica ed a pasta bianca, con una caratteristica fondamentale: viene coltivato a 7 km in linea d’aria dall’Argentario, beneficiando dell’aria marina e salmastra che risale le vigne, conferendo quella mineralità e quella sapidità quasi salina, che arricchisce e non soverchia i profumi del Belgio che più amo.
Quindi, di nuovo, finezza, eleganza, sapidità, facilità di beva vigliacca nonostante i suoi 8.5% gradi alcolici.
Quest’anno presenteremo anche una variazione sul genere: Pink Limes. Prodotta per la prima volta, applicando alla stessa tecnica brassicola della sorella maggiore, un mosto di Sangiovese vinificato in rosé. E mi aspetto quindi fragolina di bosco, frutta a bacca rossa, ciliegia… Un colore quasi cipria, la stessa pulizia e la stessa finezza.
L’eterno ragazzino, pioniere homebrewer piemontese, Matteo “Billy” Billia ha sempre dimostrato, in epoca non sospetta, di voler convogliare la sua irrefrenabile passione nelle birre legate al mondo del vino, prima ancora di fondare il suo BIRRIFICIO SAGRIN nell’astigiano e molto prima che si pensasse a definirle IGA.
Ecco come ha risposto alle mie fatidiche domande:
Quando, perché e in che modo hai legato i due mondi (vini e birre) per la prima volta.
Grazie mille per l’opportunità, per noi è molto importante. La nostra prima produzione commerciale di una IGA, nata nell’ambito di un altro progetto, forse una delle prime beer firm in Italia, risale al lontano 2008. Quell’anno presentammo a Rimini, alla manifestazione allora ancora chiamata Pianeta Birra, un’antenata di quella che oggi è diventata la Samos, la nostra birra con il mosto di moscato. C’è da dire, però, che il merito dell’intuizione è del mio socio Beppe: io all’inizio ero un po’ più titubante a riguardo. Alla luce dei fatti ha avuto ragione lui!
Parlami delle tue birre in cui utilizzi uva o suoi derivati. Quali sono quelle, a tuo avviso, più riuscite o che ti abbiano soddisfatto maggiormente?
Beh, come non essere più che soddisfatto della Roè, prodotta con l’aggiunta di mosto di Arneis? Come immagino tu sappia, si è appena meritata la medaglia di bronzo nella sua neonata categoria al Bruxelles Beer Challenge di novembre, con l’ulteriore piccolo vanto di essere risultata l’unica birra italiana arrivata a podio. Ma un altro motivo d’orgoglio è il buonissimo riscontro che ha avuto anche la Samos, in quanto è forse la nostra IGA più difficile da fare: col suo basso grado alcolico, mantenere un equilibrio fra freschezza, acidità e dolcezza è veramente complesso.
Ti piace e/o concordi con il termine IGA coniato per il primo stile italiano entrato nel BJCP?
Diciamo che non è il termine più accattivante del mondo, ma l’importante è comunicarlo bene e con attenzione, facendo leva sull’italianità e cercando di promuoverlo il più possibile. Su questo punto lancio un appello alle associazioni di categoria e dei consumatori: aiutateci ad accendere le luci su questo prodotto d’eccellenza, perché potrebbe veramente diventare un patrimonio di tutti se riuscissimo a valorizzarlo in tutte le sue sfaccettature, focalizzando l’attenzione sulla qualità in senso stretto. Segnalo un problema su tutti: l’impossibilità, ad oggi, di annotare qualsiasi riferimento all’uva, al vino od altro termine che derivi dal mondo enologico, se non limitato agli ingredienti.
Futuro delle IGA?
Noi continueremo a lavorare secondo la nostra filosofia: fermentazioni controllate, pulite, con prodotti legati al territorio (e in questo, lo ammetto, siamo stati fortunati). Per noi sono parte strutturale della nostra proposta di birra, non una “una tantum”. Il lato affascinante dello stile è che lascia aperta ogni possibilità di sperimentazione (mosti, vinacce legni ecc.) ed in questo noi italiani forse siamo i numeri uno. Il rovescio della medaglia è che proprio questa ampia libertà fa sì che il cliente trovi sia birre leggere che forti, dolci, acide e chissà quante altre versioni (tralasciando, ovviamente, i prodotti di scarsa qualità): se non si riesce a trasmettere il messaggio che (e qui mi permetto di parafrasare il tuo motto) “l’IGA non esiste, esistono le IGA’’, il consumatore rischia di trovarsi confuso, col risultato di relegare le IGA a prodotto di nicchia. Il Birrificio Sagrin si batterà con tutte le forze per far si che questo non accada!
La febbre delle IGA ormai sta contagiando tutta la penisola. In Umbria, Enrico Ciani (di BIRRA DELL’EREMO) però si era già contagiato da solo come chiaramente si evince dalle sue prime parole nelle risposte alle mie domande.
Birra dell’Eremo nasce nel Giugno 2012 ed ad inizio Settembre dello stesso anno ho iniziato a produrre Brace, il nostro Barley Wine con mosto di Sagrantino. Brace nasce dall’esigenza di creare un legame stretto con il mio territorio senza pensare troppo allo stile di riferimento, infatti le IGA in quel periodo ancora non erano state pensate come stile ufficiale. Sono nato, cresciuto e ancora vivo a 5 Km da Montefalco (PG) terra del sagrantino, per noi del posto è tutt’ora usuale avere a tavola per pranzo e/o cena, accanto ad una bottiglia di acqua, una bottiglia di Sagrantino o Montefalco Rosso (prodotto con una percentuale di sagrantino).
Viene prodotto un barley wine che dopo la fermentazione con un inoculo di lievito Saccharomyces Cerevisiae normalmente utilizzato per il Sagrantino rimane in maturazione per 3 mesi in acciaio; successivamente viene messo in barriques di rovere dove sono stati fatti già 2 passaggi di Sagrantino DOCG (almeno 6 anni di utilizzo) insieme al mosto di Sagrantino (20% circa).
In barrique rimane 12 mesi e viene poi inoculato con brettanomyces bruxellensis prima dell’imbottigliamento. La Brace è una birra da invecchiamento nata per omaggiare il tipico vino delle nostre terre. Uno degli aspetti interessanti di questa birra a mio avviso è rivolto verso la parte tannica, molto caratteristica nel vino utilizzato ed invece molto delicata nella Brace, nota secondo me che le conferisce carattere e complessità senza esagerare e affaticarne troppo la bevuta.
Nella mia famiglia ci sono sempre stati dei rituali domenicali, un pò come in tutte le famiglie italiane. Nel mio caso la domenica era consuetudine bere del buon spumante al pranzo domenicale. Mio padre, infatti, docente di microbiologia presso la facoltà Politecnico delle Marche ad Ancona, si era costruito a casa una piccola cantina di rifermentazione per testare innumerevoli ceppi di lievito adatti alla spumantizzazione. Così intorno a mezzogiorno di ogni domenica seguivo mio padre in cantina per osservarlo eseguire la sboccatura à la volée. Questa gestualità e la passione di mio padre verso questo prodotto fermentato mi ha poi trascinato nella mia avventura da prima universitaria, essendomi laureato in Scienze Agrarie ed Ambientali, lavorativa poi avendo intrapreso il lavoro di birraio.
Ed ecco il motivo della scelta del nome Genesi, questa birra rappresenta il motivo per cui tutto questo ha avuto inizio. Genesi è una birra in stile Italian Grape Ale prodotta secondo il metodo classico che alla base utilizza mosto della nostra blanche Saggia con aggiunta di 20% di mosto di verdicchio; dopo una prima fermentazione subisce 3 mesi di maturazione in acciaio dopodiché viene imbottigliata con il lievito da spumante, inserendo una quantità di zucchero tale da produrre 5,5/6 bar all’interno della bottiglia e lasciata riposare per circa 1 anno sdraiata. Dopo il periodo di riposo avviene la fase del remuage per far sì che i lieviti si depositino sul tappo, successivamente viene effettuato il rito della sboccatura con l’inserimento del Liqueur d’Expedition e tappata con tappo in sughero e gabbietta.
Riguardo al suo futuro, credo molto in questo stile che potrebbe rappresentare il comparto brassicolo italiano in tutto il mondo. Abbiamo una risorsa enorme da sfruttare, materie prime di altissima qualità, esperienza maturata nei secoli e soprattutto tradizione. È uno stile secondo me ancora poco diffuso in Italia rispetto alla enorme potenzialità e qualità che ne viene dall’utilizzo di mosto di vino durante la produzione di birra, probabilmente dovuto al prezzo relativamente elevato che hanno queste tipologie di birra che deriva dai metodi di produzione di solito più elaborati e complessi se paragonati ad una birra Ale “classica”. Mentre noto una maggiore attenzione del mercato estero verso le IGA, questo è chiaramente comprensibile dato l’interesse dei prodotti made in Italy di alta qualità, specialmente legati al mondo del vino. Penso che questo stile, che fatica a prendere il volo nel mercato italiano, prenderà quote di mercato nel momento in cui noi birrifici italiani inizieremo a produrre delle Italian Grape Ale dalla facile bevuta ma soprattutto dal prezzo più abbordabile. Ed è proprio per questo che Birra dell’Eremo ha in progetto di creare una birra che utilizza mosto di vino nella produzione di una birra “quotidiana”.
Dal Molise, il vulcanico Angelo Scacco nel suo BIRRIFICIO LA FUCINA ci regala simpatia e IGA molto interessanti. Ecco il suo IGA-pensiero.
Io sono partito a fare il birraio dopo parecchi anni di Home brewing, ma anche di bevute, questo mix non solo mi ha reso un sedicente birraio ubriaco, ma ha incrementato anche la mia curiosità e voglia di sperimentare. Nei vari giri birrai per l’italia ho iniziato ad assaggiare le prime birre prodotte con il mosto d’uva, ancora ricordo una serata al bir and fud a Roma con te e Nicola Perra che presentava la sua BB10, a quel tempo ero ancora un homebrewer, ma ebbi il primo desiderio di sperimentarmi in questo stile, e quel tipo di birra ogni volta che ne avevo l’opportunità lo bevevo e lo bevo molto volentieri.
Gli anni sono passati ed io ero alla ricerca di un’opportunità di realizzare una mia IGA. L’Epifania mi è venuta a Tokyo, durante una fiera ho incontrato i ragazzi di Podere Pomaio (piccola azienda vinicola di Arezzo), li mi sono innamorato (di vino ne capisco assai poco, però ho i miei gusti) del loro rosato, RosAntico, molto secco e profumatissimo, con una profonda mineralità. Così siamo diventati amici e sono riuscito a “rubare” del mosto a Iacopo Rossi, con la complicità di Marco Rossi (suo fratello), ho portato questo mosto da me in Molise, l’ho aggiunto (25 litri su 220 litri) insieme alla mia Matrimoniale (saison da 4 gradi con zenzero e bacche di rosa canina) in una botte nella quale c’era stato del chianti. Ho tenuto il tutto per 2 anni in botte, facendo rabbocchi con saison o con blanche, ben lontano dal birrificio; dopo un anno ho acquistato altre due botti, in una ho inserito una golden ale e brettanomices bruxellensis (in un’altra sempre golden ale, brettanomices e percoche, ma questa è un’altra storia).
A settembre 2017, un mese prima di Eurhop ho fatto un blend; 70% botte con birra e mosto di vino e 30% botte con birra e brettanomices. Ovviamente ho fatto diverse prove prima di decidere il blend, ho scelto questo mix perchè mi ha permesso di avere i profumi del mosto di vino integrati con i profumi tipici del bretta, senza che l’uno sovrastasse l’altro, inoltre unire una birra maturata due anni con una maturata un anno mi ha permesso di avere, a mio parere, la giusta carbonazione ed il giusto corpo; ne è venuta fuori una Italian Grape Ale da 5 gradi. Prima di decidere il nome abbiamo portato ad assaggiare questa birra in paese a Pescolanciano, sarebbe stato bellissimo fotografare le facce delle persone una volta fatto il primo ed unico sorso, il commento più comune è stato: “ma kesta è na cita!!!” (il livello di acidità presente in questa birra risulta assai elevato!), da qui la decisione di chiamarla Cheetah.
Onestamente devo dire che sono arrivato a questo risultato da puro autodidatta e per puro fattore C. ma sono estremamente contento, tanto che abbiamo deciso in birrificio di ripetere questa IGA (Iacopo Rossi sarò il tuo incubo peggiore), anzi a settembre 2018 ne faremo un’altra, questa volta utilizzando un vitigno molisano autocotno: la tintilia, in particolare collaboreremo con Vinica (quest’anno presente alla manifestazione vini e birre ribelli a Bruxelles).
Oltre ad essere orgoglioso come (sedicente) birraio italiano di avere uno stile che porta il nome della nostra nazione, credo anche che le IGA possano costituire un fiore all’occhiello della giovanissima cultura brassicola italiana, un campo sul quale essere sfidati dagli altri birrai, almeno per una volta però giocheremo in casa! Inoltre le potenzialità sono enormi per noi, se solo penso all’enormità di vini presenti su tutto il territorio, mi viene in mente che potremmo avere una IGA diversa ogni anno, sia sfruttando la vicinanza territoriale sia, perché no, sfruttando le differenze fra regione e regione; in pratica un viaggio per l’Italia unendo vini e birra, che spettacolo, lo voglio vedere un futuro così!
Fammi concludere con “il Molise esiste e però è solo birra artigianale (IGA incluse!)”.
Tra i progetti più recenti spicca quello dei cognati Giuseppe Schisano e Francesco Galano che nel loro BIRRIFICIO DI SORRENTO hanno dato inizio ad una serie di IGA davvero notevoli.
Sentiamo le risposte date da Giuseppe alle stesse domande che avevo rivolto agli altri suoi colleghi.
Quando perché e in che modo hai legato i due mondi (vini e birre) per la prima volta.
Ho cominciato appena ho avuto a disposizione un impianto di proprietà e ho potuto mettere in pratica idee e sperimentazioni che venivano da lontano. Parliamo del 2014 quando ho prodotta la Ligia con Furore Bianco della Costa d’Amalfi ma l’idea e le sperimentazioni sono nate molto prima. La mia filosofia di Birra è molto territoriale, amo la mia Terra e lei ama me visto tutto quello che mi regala quindi era inevitabile prima o poi arrivare all’uva e al mondo del vino in generale. Francesco, socio e commerciale del Birrificio, fa l’agente di commercio di aziende vinicole di grande livello e questo mi ha messo in contatto con persone dalla grande passione e professionalità.
Questo mi ha affascinato e nello stesso tempo responsabilizzato più del solito: non potevo permettermi di sprecare materie prime eccellenti e ottenute con il duro lavoro di tante persone. Fin da subito la mia filosofia di IGA è stata che il prodotto finale doveva essere Birra dove poi il mosto doveva dare qualcosa in più al naso e magari una bevuta un po’ diversa dovuta ad una leggera nota vinosa. Da questa idea per me il mosto andava utilizzato a freddo mantenendolo il più possibile integro e utilizzando lieviti da Birra. Il problema potevano essere le “contaminazioni” di lieviti autoctoni che avrebbero spostato l’equilibrio verso quello del vino. Ho ovviato a questo con una serie di accorgimenti tra cui il prelievo veloce dalla Cantina di produzione, abbattimento della temperatura, inserendolo in un momento preciso della fermentazione e creando un mosto di malto d’orzo ad hoc differente da quello delle mie altre Birre.
Parlami delle tue birre in cui utilizzi uva o suoi derivati. Quali sono quelle, a tuo avviso, più riuscite o che ti abbiano soddisfatto maggiormente?
Attualmente produco tre IGA: Opis, Ligia ed Elèa. Ognuna delle tre birre ha una sua personalità con delle peculiarità diverse che mi piacciono: altrimenti non le avrei prodotte. La primogenita è stata la Ligia, attualmente prodotta con mosto di Falanghina dei Campi Flegrei e Biancolella d’Ischia, ed è quella che ci ha fatto conoscere per questa tipologia di birre in quanto premiata anche a Birra dell’Anno. È molto equilibrata e i due vitigni utilizzati le conferiscono una buona eleganza e freschezza. In gioventù escono molto le note anche floreali del mosto mentre con la maturità comincia a tirare fuori quel pizzico di acidità tipica dei vini bianchi che le danno ancora più personalità.
Dopo la Ligia pensai ad un mosto a bacca rossa. Bacca rossa = Aglianico di Taurasi e nacque l’Elèa una Birra che tira fuori un bel po’ delle caratteristiche del vitigno: dalla frutta rossa al “minerale”. Ma la cosa che più mi piace dell’Elèa è quel leggero e positivo “wild” che esce fuori ogni volta dopo un anno e che ora stiamo studiando nel nostro laboratorio di microbiologia. L’Opis è nata il giorno stesso in cui sono andato ad Ischia a prendere il mosto nel senso che ero partito con un’idea e sono rientrato la sera con una completamente diversa. Il progetto iniziale era quello di utilizzare la Biancolella assecondando sempre un po’ la “forza” del vitigno sia nel corpo che nell’alcol. Parliamo sempre di un vitigno a bacca bianca e comunque molto fresco ma che comunque da origine ad un vino.
Ad Ischia per forza di cose siamo andati via mare, era ottobre ma era una giornata di sole fantastica e i profumi erano quelli dell’estate. Stessa sensazione quando entrai nella cantina di vinificazione a quel punto pensai che mi sarebbe piaciuto fare quella che subito chiamai “session IGA” ossia una Birra poco alcolica, fresca beverina e defaticante. L’ideale dopo una giornata passata in barca. Non dissi a nessuno di queste mie sensazioni, la brassai e basta. Fortunatamente è piaciuta.
Ti piace e/o concordi con il termine IGA coniato per il primo stile italiano entrato nel BJCP?
La riuscita o meno di uno stile non credo dipenda solo dal suo nome ma dipende soprattutto da quello che riusciamo ad esprimere, raccontare e comunicare con le nostre birre e ciò che riesce a trasmettere al consumatore chi deve proporle (publican, ristoratori ecc). Mi sono sempre concentrato su questo e poco nulla sull’acronimo.
Futuro delle IGA?
Il futuro delle IGA dipende da quello che il mondo birrario Italiano riuscirà ad esprimere nel tempo. Il mondo delle IGA è molto vasto: la stessa materia prima può essere utilizzata in tantissimi modi diversi con risultati diversi. Senza contare le metodologie di produzione che sono ancora più numerose. Ciò che si dovrebbe evitare sono produzioni tanto per farle, per moda e senza nulla da dire che possono svilire il buon lavoro di tanti altri. Credo che quando si decide di produrre Birre del genere bisogna tener ben presente cosa e come realizzarla, studiare il vitigno e la cantina e spesso è importante conoscere le tecniche enologiche per poi riportarle con i giusti correttivi nel nostro mondo. Se riusciremo a produrre Birre buone di qualità, con personalità, in grado di esprimere nel bicchiere territori, persone e perché no storia e tradizioni, allora le IGA diventeranno un vero e proprio made in Italy. Se saremo anche bravi a comunicarle e commercializzarle credo che anche all’estero potremo toglierci un bel po’ di soddisfazioni.
Io ci credo, il futuro lo vedo molto roseo sarà che trovo la produzione delle IGA molto stimolante sia da un punto di vista tecnico ma anche perché mi permette di essere in contatto con un mondo simile ma diverso dal mio con tante storie, tradizioni e metodologia da raccontare. Le trovo affascinanti a 360° non solo da bere.
Questa “Igamania” si sta propagando anche a piccolissimi produttori con produzioni davvero minime. Esempio lampante, il BIRRIFICIO KM8 di Martini Michele che nella minuscola frazione Terres, nel comune trentino di Contà, produce una IGA dal nome rockettaro “Sabbath Bloody Sabbath”. Ecco come la descrive Michele stesso.
Si tratta di una IGA ispirata alla tradizione Trentina dei nostri padri di portare con sè in montagna, oppure in campagna, una bottiglia di caffè d’orzo con il vino…
Ebbene abbiamo pensato di aggiungere in fermentazione, alla nostra brown porter “Paranoid” un 30% di mosto di Teroldego, per emulare questa storica bevanda… Il risultato è stato “porteroldec” ovvero una crasi tra porter e teroldego (in dialetto teroldec) con la c morbida…
Le abbiamo dato un nome tratto come da consuetudine da una canzone… In questo caso, vista l’origine (Paranoid dei Black Sabbath) abbiamo pensato ad un altro pezzo storico di questa band è nata cosi “Sabbath Bloody Sabbath”dall’unione tra il nero della porter ed il “sangue” del teroldego. Questa birra è stata presentata al festival “Solobirra” all’interno della fiera ExpoRivaHotel a Riva del Garda dal 4 al 7 febbraio 2018. Per l’occasione abbiamo preparato 10 Magnum personalizzati ognuno da un diverso artista ed esposti presso il nostro stand in fiera.
Avendo iniziato, come primo esempio, con le sperimentazioni di Teo Musso, mi sembra giusto ed anche emblematico concludere, come ultimo esempio le recenti sperimentazioni dell’altro grande pioniere Agostino Arioli del comasco BIRRIFICIO ITALIANO per chiudere un cerchio di questo fenomeno che in realtà non credo si chiuderà in tempi brevi ma che ci regalerà tante altre belle soddisfazioni.
Nel 2015, Agostino ha creato, non lontano da Rovereto, con la collaborazione di due noti enologi trentini Matteo Marzari e Andrea Moser, un progetto davvero esaltante chiamato Klanbarrique lavorando su birre passate in barrique con continue variazioni sia per le tecniche che per gli ingredienti. Non poteva certo mancare l’utilizzo dell’uva che ha portato, data la bravura, competenza ed esperienza degli attori nei loro specifici campi, ad un prodotto di alto profilo qualitativo come la millesimata Marzarimen, una Italian Grape Ale di 7,5 gradi alcolici prodotta con mosto di birra (un blend di mosti di Amber Shock e Tipopils) al quale vengono aggiunte il 25% di mosto e vinacce di uve Marzemino (tipico vitigno autoctono trentino) dell’azienda agricola De Tarczal di Isera. Nessun inoculo, la fermentazione viene attuata dai lieviti selvaggi delle bucce dell’uva in tonneaux aperti per circa 45 giorni, durante i quali si pratica la follatura affinché non si crei la cappa di vinacce in superficie e per far rilasciare il bel colore delle uve. L’affinamento viene poi condotto per 9 mesi in barriques di rovere che hanno in precedenza ospitato vino rosso trentino.
Come si è visto dai tanti esempi presentati e descritti, ci troviamo davanti ad uno stile che racchiude, sotto l’acronimo IGA, un numero inimmaginabile di ipotetiche sottocategorie.
Mi aspetto molto da questo stile, forse meglio dire da questa tendenza o addirittura scuola di pensiero tipicamente italiana, per svariati motivi. In primis per le sconfinate potenzialità che l’utilizzo dell’uva e dei suoi derivati può regalare ai nostri birrai che hanno quindi la grossa opportunità e, al tempo stesso, la grossa responsabilità, di sperimentare ex-novo o recuperare aggiornandole o meno, tecniche che accrescano le doti di cui noi italiani siamo dotati: creatività, fantasia ed originalità.
Nicola Perra, con le sue BB, indubbiamente indicò una via nuova, il legame tra il mondo delle birre e quello dei vini, via che poi molti seguirono in modo personale grazie a vari fattori come il proprio background ambientale e culturale, le svariate tecniche impiegate e naturalmente le diverse uve utilizzate, quasi sempre, per non dire sempre, provenienti da vitigni e da vignaioli locali.
A tal riguardo, concluderei con un ricordo legato ad un episodio che mi colpì particolarmente. Durante una serata di degustazione che tenni più di 10 anni fa presso il pub Brandibirra di Bibbona, il Conte Stefano Hunyady de Kéthely, iniziò la presentazione della sua birra Cudera, così chiamata da un particolare formica, con utilizzo di mosto di sue uve di Bolgheri, prodotta in collaborazione con Roberto Giannarelli, birra Petrognola, uno dei birrai artigianali italiani più geniali ed umili, dichiarando con grande onestà e riconoscenza che senza la via tracciata dal pioniere Nicola Perra, egli non avrebbe mai pensato di utilizzare del mosto di uva per fare una birra.
La cosa mi colpì particolarmente, lo ripeto volutamente, perché non avevo mai sentito né tuttora, a dir la verità, sento spesso parole di riconoscenza e gratitudine in questo nostro piccolo mondo.
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