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Articolo pubblicato su Coffitalia Beverfood 2008

SOMMARIO: CAFFÉ E MALATTIE CORONARICHE – CAFFÉ E DIABETE DI TIPO 2 – CAFFÉ , MEMORIA E FUNZIONI COGNITIVE – CAFFÉ E PATOLOGIE EPATICHE DEGENERATIVE – Centro Studi dell’Alimentazione

Riferimento Temporale: estate 2008

Il caffé rappresenta, insieme all’acqua e al tè, una delle bevande più bevute al mondo. A questo riguardo l’Italia si pone tra le prime nazioni Europee in termini di consumo di caffé con circa 6 Kg per persona all’anno (www.ico.org). I suoi possibili effetti sulla salute umana, tuttavia, rimangono un argomento di dibattito – anche e soprattutto sulla stampa non specializzata – nonostante le più recenti evidenze mostrino come un consumo non eccessivo di caffè non abbia effetti sfavorevoli sul rischio cardiovascolare, mentre l’azione protettiva nei confronti del diabete di tipo 2 è di fatto assodata.

Nuove evidenze, inoltre, suggeriscono un ruolo del caffé nel mantenimento della memoria e delle funzioni cognitive negli anziani e una correlazione inversa con l’insorgenza del morbo di Parkinson; alcuni dati ne suggerirebbero, infine, anche un effetto nel contrastare l’insorgenza di cirrosi epatica legata all’alcolismo e nel ridurre l’incidenza di epatocarcinoma. Di seguito viene riportata una sintesi commentata degli studi più significativi pubblicati nel 2006 e 2007 sul tema “caffé e salute”.


CAFFÉ E MALATTIE CORONARICHE

L’effetto del caffé sul rischio cardiovascolare è tuttora dibattuto. Negli studi meno recenti, in particolare, il caffé sembra aumentare il rischio di queste malattie, mentre i risultati degli studi più moderni non evidenziano un significativo aumento del rischio di infarto associato al suo consumo, o evidenziano addirittura una sorta di effetto protettivo del caffé nei confronti delle coronaropatie.

Secondo uno studio pubblicato su JAMA nel marzo 2006 (Cornelis MC et al. Coffee, CYP1A2 genotype, and risk of myocardial infarction. JAMA 2006; 295: 1135-41) la causa della variabilità dei risultati derivanti dagli studi relativi a “caffé e cardiopatie” potrebbe derivare da caratteristiche specifiche del soggetto, ed in particolare dal differente assetto enzimatico degli individui coinvolti. Il metabolismo della caffeina, nel nostro organismo, dipende infatti dall’enzima epatico CYP1A2 che, in base alla forma genica espressa, rende un individuo in grado di metabolizzare la sostanza lentamente o velocemente.

Nei “metabolizzatori” lenti il consumo di 1 tazza di caffé al giorno diminuisce il rischio di attacco cardiaco non fatale, mentre bere 2-3 o 4 o più tazze/dì lo aumenterebbe, rispettivamente, del 36% e del 64%. L’assunzione delle stesse dosi, in coloro che metabolizzano la caffeina in modo rapido, è invece associata a una riduzione del rischio del 25%, del 22% e dell’1% (rispettivamente e in confronto a chi non beve caffé). E al di sotto dei 59 anni le differenze sono ancora maggiori: in base al numero di tazze bevute al giorno (1, 2-3, più di 4) il rischio di infarto aumenta del 24%, del 67% e del 2,3%; mentre nei portatori dell’enzima “veloce” diminuisce del 52%, del 42% e del 17%, rispettivamente. Tali risultati suggeriscono che sarebbe soprattutto la caffeina a condizionare il rischio cardiovascolare, ma che l’effetto può essere completamente diverso in persone con differente assetto genetico.

Uno studio pubblicato su Circulation nell’aprile del 2006 (Lopez-Garcia E et al. Coffee Consumption and Coronary Heart Disease in Men and Women. A Prospective Cohort Study. Circulation 2006; 113: 2045-53) ha invece ipotizzato un lieve effetto protettivo del caffé nei confronti delle patologie coronariche.

Nei circa 44 mila uomini e nelle quasi 85 mila donne coinvolte nello studio, infatti, coloro che si trovavano nella categoria dei maggiori consumatori (più di 6 tazze/giorno), presentavano una diminuzione del rischio di coronaropatie, anche se di un’ampiezza piuttosto bassa e comunque non significativa sul piano statistico (-13% tra le donne e -28% tra gli uomini). Analogamente, non si è trovata alcuna associazione tra il rischio di malattie coronariche e il consumo totale di caffeina, caffé decaffeinato o tè.

Anche una meta-analisi presentata nel novembre 2006 al Congresso nazionale della Società Italiana di Nutrizione Umana (Conti A. Consumo di caffé e cardiopatie: una meta-analisi. XXXIV Congresso Nazionale SINU 2006) ha confermato l’assenza del rischio di cardiopatia ischemica legata al consumo di caffé. L’indagine ha esaminato i risultati degli studi pubblicati negli ultimi decenni relativi all’associazione tra l’abitudine ad assumere caffé e il rischio di eventi ischemici coronarici; per un totale di circa 400 mila partecipanti seguiti per un periodo variabile tra i 3 e i 44 anni. Secondo i risultati della meta-analisi, un consumo da lieve a moderato di caffé non è associato ad un aumento del rischio di cardiopatia ischemica. In particolare, per consumo moderato si intende l’equivalente di non più di 280-300 mg di caffeina, che si trovano in 2 tazze di caffé all’americana, oppure in 3-4 tazzine di espresso del bar, oppure ancora in 3 tazzine di caffé preparato con la moka.

In un ampio studio prospettico (GISSI-Prevenzione Investigators. Coffee Consumption and Risk of Cardiovascular Events After Acute Myocardial Infarction Circulation 2007; 116: 2944-51) condotto su più di 11.000 pazienti arruolati nello studio GISSI (Gruppo Italiano per lo Studio della Sopravvivenza nell’Infarto miocardico) – Prevenzione, i cui risultati sono stati pubblicati nel 2007, è stata valutata la correlazione tra il consumo di caffé ed il rischio cardiovascolare in soggetti con pregresso infarto del miocardio: in una popolazione quindi a rischio cardiovascolare particolarmente elevato.

Pazienti con infarto del miocardio recente (tre mesi) sono stati suddivisi in tre gruppi in base al consumo di caffé : mai o quasi mai, 2, da 2 a 4 e più di 4 tazze al giorno. I risultati hanno mostrato che anche in questa tipologia di paziente ad alto rischio, indipendentemente dalla quantità, il consumo di caffé non modifica il rischio di comparsa di eventi coronarici, ictus e morte improvvisa. Quest’ ultima osservazione appare di particolare interesse alla luce dei timori che il consumo di caffé possa facilitare la comparsa di aritmie anche fataliGli Autori sottolineano che i pazienti valutati in questo studio consumavano principalmente caffé espresso o preparato con la moka, i metodi di gran lunga più utilizzati in Italia. Dal momento che le dimensioni della tazza di caffé, il metodo di preparazione, il contenuto di caffeina dei semi e di un innumerevole varietà di altre sostanze biologicamente attive possono significativamente influenzare i risultati, le conclusioni di questo studio potrebbero essere valide soprattutto per la popolazione italiana.

Il possibile effetto di riduzione della mortalità cardiovascolare e per patologie infiammatorie associato al consumo di caffé potrebbe essere la conseguenza delle sue capacità antiossidanti. L’infiammazione rappresenta una forma di difesa dell’organismo nei confronti di aggressioni esterne (traumi, calore, corpi estranei) e di agenti patogeni come virus e batteri. Lo scopo di questi fenomeni è quello di circoscrivere l’area interessata dal danno, per proteggere i tessuti sani, e avviare un processo di riparazione. Un’infiammazione prolungata, tuttavia, può contribuire alla patogenesi di malattie infettive e di patologie infiammatorie croniche quali insufficienza respiratoria, diabete, cirrosi, insufficienza renale o epatica, artrite reumatoide, patologie del tratto respiratorio, diverse forme di patologie neurodegenerative e tumori.

Il processo infiammatorio è strettamente legato allo stress ossidativo in quanto vengono prodotte elevate quantità di specie reattive di ossigeno e azoto; la presenza di sostanze come caffeina, polifenoli, composti eterociclici, rende il caffé una delle maggiori fonti dietetiche di antiossidanti.

A questo riguardo, uno studio del 2007 (Patella F et al. Coffee drinking induces incorporation of phenolic acids into LDL and increases the resistance of LDL to ex vivo oxidation in humans. Am J Clin Nutr 2007; 86: 604-9) ha valutato l’incorporazione di acidi fenolici presenti nel caffé nelle LDL e il conseguente effetto sulla sensibilità all’ossidazione di queste lipoproteine. I risultati ottenuti hanno dimostrato che il consumo di una tazza (200 ml) di caffé effettivamente aumenta la resistenza delle LDL alle modificazioni ossidative e tale effetto è legato all’incorporazione di derivati fenolici dal caffé alle lipoproteine circolanti.

Uno studio pubblicato nel 2006 (Andersen LF et al. Consumption of coffee is associated with reduced risk of death attributed to inflammatory and cardiovascular diseases in the Iowa Women’s Health Study. Am J Clin Nutr 2006; 83: 1039-46), che ha coinvolto più di 27 mila donne in post-menopausa, di età compresa tra i 55 e i 69 anni, ha ricercato l’associazione tra il consumo di caffé e l’incidenza della mortalità dovuta a cause cardiovascolari, patologie infiammatorie o tumore. Nel corso dei 15 anni di follow-up si sono osservati 4265 decessi; mettendo in relazione le cause dei decessi con il consumo di caffé dichiarato dalle donne è emerso che coloro che bevevano da 1 a 3 tazze al giorno avevano una mortalità per cause cardiovascolari inferiore del 24%, rispetto a chi non beveva caffé . Anche la mortalità per patologie infiammatorie risultava inferiore del 28% e del 33% nelle donne che consumavano, rispettivamente, 1-3 e 4-5 tazze al giorno di caffé . Per quanto riguarda i tumori in questo studio non è stato, invece, evidenziato alcun effetto protettivo.


CAFFÉ E DIABETE DI TIPO 2

Uno studio giapponese, pubblicato nell’aprile 2006 (Iso H et al. The relationship between green tea and total caffeine intake and risk for self-reported type 2 diabetes among Japanese adults. Ann Intern Med 2006; 144: 554-62), ha associato il consumo di tè verde e di caffè alla diminuzione del rischio di diabete di tipo 2.

Nei circa 6700 uomini e nelle quasi 11 mila donne tra i 40 e i 65 anni coinvolti nello studio, infatti, il rischio di sviluppare questa patologia è risultato inferiore del 33% e del 42%, rispettivamente, tra coloro che hanno dichiarato di consumare più di 6 tazze al giorno di tè verde o più di 3 tazze al giorno di caffé , rispetto a chi ne assumeva meno di 1 tazza a settimana. I meccanismi alla base dell’effetto protettivo comprenderebbero l’aumento del metabolismo basale, la stimolazione dell’ossidazione dei grassi, la metabolizzazione del glicogeno nei tessuti muscolari e l’incremento della lipolisi nei tessuti periferici. Inoltre, sostanze antiossidanti come l’acido clorogenico intervengono positivamente sul metabolismo del glucosio.

Nonostante le evidenze che confermano il ruolo protettivo del caffè nei confronti del diabete di tipo 2 siano numerose, ancora non è chiaro quale sia il ruolo della caffeina in tale protezione. Da uno studio pubblicato nel giugno 2006 (Pereira MA et al. Coffee consumption and risk of type 2 diabetes mellitus: an 11-year prospective study of 28.812 postmenopausal women. Arch Intern Med 2006; 166: 1311-6) emerge, infatti, che sarebbe addirittura il caffé decaffeinato ad avere il maggior ruolo nella difesa dall’insorgenza della patologia. Nelle quasi 29 mila donne in post-menopausa studiate, infatti, il consumo di 6 tazze di caffé “normale” al giorno abbasserebbe il rischio di diabete di tipo 2 del 21%, mentre il consumo della stessa quantità giornaliera di decaffeinato lo abbasserebbe del 33%, rispetto alle donne che non bevevano caffé . In base ai risultati, gli autori hanno escluso il ruolo della caffeina nell’azione protettiva, tuttavia non è ancora chiaro quale possa essere il meccanismo alla base dell’associazione. Una possibile spiegazione potrebbe derivare dalla presenza di diversi minerali e fitochimici nei semi di caffé , i quali sarebbero in grado di promuovere il metabolismo postprandiale dei carboidrati. Inoltre, il caffé , in quanto fonte di numerosi antiossidanti, potrebbe proteggere le cellule pancreatiche dallo stress ossidativo e promuovere la sensibilità all’insulina nei tessuti periferici.

Un’indagine pubblicata nel novembre del 2006 (Smith B et al. Does coffee consumption reduce the risk of type 2 diabetes in individuals with impaired glucose? Diabetes Care 2006; 29: 2385-90) ha ricercato tale effetto protettivo anche in coloro che presentano alterata tolleranza al glucosio e sono, quindi, più esposti allo sviluppo della patologia. Può essere opportuno ricordare che i soggetti con alterata tolleranza al glucosio hanno valori di glicemia superiori a quelli considerati nella norma, ma non abbastanza elevati da considerarsi patologici. Questa condizione rappresenta un fattore di rischio per il diabete di tipo 2, in quanto rappresenta una situazione intermedia tra il normale metabolismo del glucosio e la patologia vera e propria. Lo studio prima ricordato ha coinvolto circa 900 soggetti con più 50 anni (non affetti da diabete) e dai risultati è emerso che il rischio di sviluppare la patologia era minore del 64% in coloro che erano soliti consumare caffé rispetto a chi non ne beveva. Inoltre, una riduzione simile è stata riscontrata anche nei 317 soggetti che, pur non avendo sviluppato la patologia, all’inizio dello studio presentavano alterata tolleranza al glucosio.


CAFFÉ , MEMORIA E FUNZIONI COGNITIVE

Sempre più studi forniscono evidenze relative alla capacità del caffé nel contribuire al mantenimento delle funzionalità cognitive in età avanzata. Un’ulteriore conferma arriverebbe da uno studio pubblicato nel 2007 (van Gelder BM et al. Coffee consumption is inversely associated with cognitive decline in elderly European men: the FINE Study. Eur J Clin Nutr 2007; 61: 226-32), il quale suggerisce che il consumo moderato e regolare di caffé sarebbe in grado di rallentare il naturale declino cerebrale nelle persone anziane. Quasi 676 uomini sani nati tra il 1900 e il 1920 sono stati seguiti per 10 anni; il consumo di caffé è stato valutato in base al numero di tazze bevute ogni giorno, mentre le funzioni cognitive sono state testate con il Mini-Mental State Examination (MMSE), esame che valuta le performance mentali sulla base di un punteggio da 0 a 30, dove il valore più elevato corrisponde a una migliore performance.

In tutti i gruppi di consumo è stata riscontrata nel tempo una riduzione delle funzioni cognitive (che entro certi limiti fa parte del normale processo di invecchiamento), tuttavia, mentre tra i partecipanti che avevano dichiarato un consumo regolare di caffè, nel corso dei 10 anni di studio la riduzione delle capacità intellettuali era del 4% (-1,2 punti al MMSE), tra i non-consumatori le performance cognitive si sono ridotte più del doppio (-2,6 punti). In generale, dallo studio è emersa una relazione inversa tra la quantità di caffé consumato quotidianamente e il declino cognitivo, che è risultato essere minimo (-0,6 punti al MMSE) tra coloro che bevevano 3 tazze di caffé al giorno. Nei partecipanti che non avevano l’abitudine di bere caffé , invece, è stata evidenziata una riduzione 4,3 volte maggiore delle funzioni cognitive.

Uno studio del 2007 (Ritchie K et al. The neuroprotective effects of caffeine: a prospective population study (the Three City Study). Neurology 2007; 69: 536–45) ha valutato l’associazione tra consumo di caffé e declino cognitivo in circa 7000 soggetti con età maggiore di 65 anni seguiti per 4 anni, confermandone il beneficio nella donna, ma non nell’uomo. La correlazione nelle donne è risultata essere dose dipendente col beneficio maggiore per quantità superiori a 300 mg al giorno e nessun beneficio al di sotto di 200. Nessun effetto è stato invece osservato sul rischio di demenza.

Ad avvalorare la tesi del caffé che “fa bene al cervello” c’è anche uno studio presentato al meeting annuale della Psysiological Society nel luglio 2006 (Patel N and Vreugdenhil M. Adenosine A1 receptors antagonists boost hippocampal gamma oscillations. 2006 Annual Meeting of the Psysiological Society) secondo il quale la caffeina presente nel caffé sarebbe in grado di alterare l’attività elettrica del cervello e, aumentando la frequenza di un tipo di onde cerebrali (ritmi gamma), migliorerebbe la memoria e l’apprendimento. La caffeina, infatti, sarebbe in grado di evitare il legame dell’adenosina con il suo recettore, bloccandone l’effetto e potenziando i ritmi gamma. In particolare, il consumo regolare di caffé sarebbe in grado di aumentare di tre volte l’attività elettrica del cervello, prevenendo la perdita di memoria nelle persone anziane.

Di grande interesse per la definizione del ruolo neuroprotettivo del caffé sono due studi pubblicati nel 2007 sulla relazione tra caffé ed insorgenza del morbo di Parkinson. Nel primo dei due (Saaksjarvi K et al. Prospective study of coffee consumption and risk of Parkinson’s disease. Eur J Clin Nutr 2007; doi:10.1038/sj.ejcn.1602788) gli Autori hanno seguito per 22 anni quasi 7.000 soggetti, uomini e donne, registrando 101 casi di malattia. Di questi meno di 1 caso su 200 soggetti era stato registrato nel gruppo di individui che bevevano più di 10 tazze di caffè al giorno, contro più di 3 casi su 200 nel gruppo con un consumo inferiore. Questo studio, se da un lato conferma le osservazioni precedenti di una relazione inversa tra consumo di caffè e morbo di Parkinson, dall’altro sottolinea anche il fatto che tale correlazione è significativamente influenzata da altri fattori, infatti l’effetto protettivo del caffè diventava significativo già a 4 tazze al giorno nei sottogruppi di soggetti che avevano valori di colesterolo minori di 7,2 mmoli/l od erano obesi. Inoltre una correlazione inversa col rischio di malattia è risultata significativa anche per altri fattori quali il fumo di sigaretta. Gli autori concludono quindi che ulteriori studi sono necessari per confermare il ruolo protettivo del caffé nella malattia di Parkinson.

A questo riguardo, anche nel secondo studio pubblicato nel 2007 (Tana E et al. Association between caffeine intake and risk of Parkinson’s disease among fast and slow metabolizers. Pharmacogen Genom 2007; 17: 1001–5) è stata osservata una relazione inversa tra Parkinson e assunzione di caffeina in 418 pazienti confrontati con un gruppo controllo. Tale relazione è risultata significativa indipendentemente dalla isoforma di CYP1A2 espressa nei soggetti arruolati nello studio e quindi in metabolizzatori della caffeina sia lenti che rapidi. Questo ha portato gli autori a concludere che l’effetto neuroprotettivo è imputabile non solo alla caffeina, ma anche al suo principale metabolita paraxantina, risultato peraltro in accordo con dati sperimentali precedentemente ottenuti in modelli animali.

Le evidenze cliniche degli effetti favorevoli sul cervello della caffeina non si limitano alle persone anziane, infatti in un altro studio del 2007 (Peeling P, Dawson B. Influence of caffeine ingestion on perceived mood states, concentration, and arousal levels during a 75-min university lecture. Adv Physiol Educ 2007; 31: 332–5) è stato direttamente documentato l’effetto favorevole di moderate dosi di bevande contenti caffeina sulla capacità di attenzione e sul senso di lucidità mentale di studenti universitari che attendevano ad una lezione di 75 minuti. Lo studio ha previsto che 10 studenti che avevano assunto 60 minuti prima dell’inizio della lezione 100 mg di caffeina sottoforma di una tazza di caffé o due lattine di bibita fossero confrontati con 10 studenti che assumevano placebo. I gruppi venivano invertiti la settimana dopo. La scelta del momento di somministrazione è stata fatta in funzione del picco massimo di assorbimento previsto per la caffeina. Sia nella prima settimana che nella seconda il gruppo che aveva assunto caffeina si era sentito più attento, attivo e vivace del gruppo che non lo aveva fatto. Un risultato che conferma, in uno studio controllato, quanto già largamente attuato nella pratica quotidiana.


CAFFÉ E PATOLOGIE EPATICHE DEGENERATIVE

Uno studio pubblicato nel giungo 2006 (Klatsky AL et al. Coffee, cirrhosis, and transaminase enzymes. Arch Intern Med 2006; 166: 1190-5) ha ipotizzato un ruolo del caffé nel contrastare l’insorgenza di cirrosi epatica legata all’alcolismo. Dall’analisi dei dati relativi a circa 125 mila soggetti, infatti, è emerso che ogni tazza di caffé bevuta al giorno era associata a una diminuzione del 22% del rischio di sviluppare la patologia. In particolare, rispetto a chi non consumava caffé , chi ne beveva 1 tazza, da 1 a 3 tazze o più di 4 tazze al giorno, aveva una probabilità di sviluppare cirrosi epatica alcolica inferiore del 30%, del 40% e dell’80%, rispettivamente.

Per quanto riguarda la misurazione degli enzimi, indice di danno epatico, i livelli più elevati sono stati trovati nei maggiori bevitori di alcolici, mentre chi aveva dichiarato di bere sia alcool che caffé aveva dei tassi enzimatici minori e ciò potrebbe parzialmente spiegare perché non tutti i bevitori sviluppano cirrosi. A quanto pare non sarebbe la caffeina, ma qualche altra sostanza presente nel caffé a esplicare l’effetto preventivo, che non è stato riscontrato con il tè.

I risultati di una meta-analisi pubblicata nel 2007 (Bravi F et al. Coffee drinking and hepatocellular carcinoma risk: a meta-analysis. Hepatology 2007; 46: 430-5) suggeriscono che gli effetti favorevoli del caffè sulla funzione epatica si possa estendere anche ad altre patologie gravi come il carcinoma epatico, una forma di tumore responsabile del 3-5% della mortalità totale causata da neoplasie. La cirrosi epatica assieme alle persistenti infezioni da virus dell’epatite e il consumo d’alcol sono tra le principali cause di insorgenza di tale patologia.

In questa metanalisi condotta su studi sia prospettici sia caso controllo è stata osservata una riduzione del 41% del rischio di carcinoma epatico nei bevitori abituali di caffè rispetto ai non bevitori. Il beneficio è stato osservato sia in una popolazione quale quella europea di forti consumatori di caffè , sia in Giappone dove questa abitudine è nettamente meno diffusa. I risultati dello studio sono altamente significativi, ma non escludono che sia la patologia a causare un ridotto consumo di caffé anziché il contrario. Tuttavia gli autori sottolineano che l’analisi dei possibili fattori confondenti tende a confermare il ruolo del caffé quale fattore protettivo di questa forma tumorale.Questo ruolo troverebbe conferma in uno studio caso-controllo condotto in Italia e pubblicato anch’esso nel 2007 (Montella M et al. Coffee and tea consumption and risk of hepatocellular carcinoma in Italy. Int J Cancer 2007; 120: 1555–9).

In questo studio 185 casi di carcinoma epatico sono stati confrontati con circa 400 controlli. I risultati ottenuti hanno mostrato che il gruppo di soggetti che consumavano meno di 2 tazze di caffé al giorno avevano un rischio per carcinoma epatico circa doppio dei soggetti che consumavano più di 4 tazze al giorno. Interessante l’osservazione che, in analogia con quanto osservato nello studio sulla cirrosi, il tè non ha mostrato alcun effetto protettivo, inoltre nessun beneficio è stato riscontrato in seguito al consumo di caffé decaffeinato. Anche in questo studio tuttavia resta da determinare con certezza se la correlazione inversa statisticamente significativa tra consumo di caffé e rischio di carcinoma epatico rifletta un effettiva relazione causa-effetto e quindi l’esistenza di una reale attività antineoplastica del caffé.

Centro Studi dell’Alimentazione
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