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“Vitigni e territori: l’evoluzione della base ampelografica italiana” – Diego Tomasi CREA-Viticoltura Enologia

La viticoltura italiana per la produzione di vino, negli ultimi 50 anni è stata indirizzata dalla normativa comunitaria e condizionata dai cambiamenti degli stili di vita e delle abitudini alimentari dei consumatori.
La superficie vitata si è dimezzata e si è concentrata nelle aree più vocate dove, grazie all’adozione delle norme sulla commercializzazione dei materiali di moltiplicazione della vite (1969), è possibile monitorare costantemente la composizione e l’evoluzione quanti-qualitativa del vigneto Italia.
Oltre 500 sono le varietà per uva da vino iscritte al Registro Nazionale delle Varietà, 350 di queste (pari al 70%) vengono annualmente moltiplicate e rese disponibili ai viticoltori. Il gruppo dei vitigni internazionali non ha subito grandi variazioni nell’ultimo trentennio, mentre le varietà nazionali diffuse in più Regioni (Montepulciano, Sangiovese…), e le varietà tipiche di areali ben delimitati (Negro amaro, Corvina, Catarratti….) vedono un utilizzo costante e in alcuni casi crescente.
Nei cinque decenni la richiesta di varietà da parte dei vivaisti, è variata in conseguenza al cambio di preferenze del consumatore che è passato da vini bianchi a vini rossi che oggi coprono oltre il 60% del ventaglio varietale. Nell’ultimo decennio si sono avuti dei veri e propri fenomeni di tendenza che hanno inciso fortemente sulla produzione di barbatelle di vitigni autoctoni (vedi il caso Glera, Grillo…..) e di alcuni internazionali (vedi Pinot grigio, Chardonnay, Syrah). A completamento dell’analisi si riscontra la preferenza per l’utilizzo di cloni nazionali di varietà sia autoctone che internazionali e ciò a testimonianza dell’importante lavoro di selezione per il miglioramento sanitario e qualitativo del vigneto Italia.

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“L’Italia del vino che cresce: modelli di business e criticità” – Andrea Rea Wine Management Lab di Sda-Bocconi

Il vino è mitologia! Chi lo produce non può essere un semplice produttore, poiché il vino è generato direttamente dalla terra, dalle stagioni, dalla cura della vigna e poi, in cantina prende forma, come il tessuto nelle sapienti mani del sarto diventa abito elegante e talvolta raffinato.
L’antesignano marketing francese ha abilmente costruito e custodito il “mito del vigneron”, che a sua volta costruiva e custodiva vini, talvolta straordinari. In modo più pragmatico ed efficiente i “new competitor” hanno prodotto vino con un’organizzazione manageriale.
Gli italiani? Il Wine Management Lab della SDA Bocconi sta nuovamente aggiornando i suoi dati su un ampio campione di aziende italiane.
Emerge che la spina dorsale dell’Italia del vino è formata da tutte quelle aziende che sono riuscite a superare la soglia dimensionale minima, per avviare un’organizzazione aziendale costruita su competenze qualificate.
Queste aziende, insieme alle poche “grandi”, si pongono nella condizione economica e professionale di poter migliorare la qualità del vino e certamente di sostenere la competitività sui mercati internazionali, oltre che sui canali nazionali. Possono, infatti, iniziare a sviluppare strategie di differenziazione e di branding.
I piccoli volumi sono sostenibili solo dai non tanti “vigneron nostrani”, mentre la maggioranza delle altre micro-aziende insegue, senza idee chiare, uno sviluppo tra mito e realtà.
L’imprenditorialità può essere il modello che caratterizza l’Italia anche nel vino, in quanto capace di conciliare mitologia e crescita?

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“Profili di consumo e strategie distributive: come è cambiata l’Italia del vino” – Denis Pantini Wine Monitor Nomisma

Che i consumi di vino in Italia abbiano intrapreso da diversi decenni una tendenza alla riduzione sostanzialmente ineludibile è ormai risaputo e i motivi alla base di questo calo sono altrettanto noti.
Fino a tutti gli anni ‘80, il vino ha rappresentato sostanzialmente un alimento in grado di fornire calorie al fabbisogno energetico dei lavoratori che per la gran parte erano dediti all’agricoltura (il 37% della popolazione italiana risiedeva nelle aree rurali, oggi meno del 30%) e a mansioni meno sedentarie di quelle che invece contraddistinguono gli occupati di un’economia ormai terziarizzata come la nostra. Con la fuga dalle campagne, la “destrutturazione” dei pasti e la riduzione del fabbisogno calorico medio, gli italiani – in particolare le nuove generazioni – hanno progressivamente abbandonato il consumo quotidiano di vino, per spostare le proprie attenzioni sia a bevande diverse ma soprattutto a differenti modalità di consumo dello stesso prodotto.
Contestualmente sono cambiati i canali di vendita: la GDO ha acquisito sempre più peso nel mercato nazionale, l’export è diventato necessario, le imprese si sono prodigate nella vendita diretta e il commercio elettronico è oggi in fase espansiva. Più problematica la ristorazione e, più in generale il canale “on-trade”, sbocco indispensabile per le imprese più piccole e per la vendita dei vini premium che ha perso rilevanza soprattutto negli ultimi anni a causa della recessione economica.
Se dal passato si volge uno sguardo al futuro, permangono molte incognite sull’evoluzione dei consumi di vino in Italia e, di conseguenza, sui cambiamenti nei canali distributivi. Quello che è certo, è che dal punto di vista quantitativo i consumi continueranno a ridursi e, più sicuro ancora, si modificheranno ulteriormente nelle tipologie di prodotti consumati. E i segnali di queste evoluzioni sono facilmente individuabili guardando alle rilevanti differenze che sussistono nelle modalità di consumo tra la generazione dei cosiddetti “Millennials” (fino a 34 anni) rispetto a quella dei “Baby Boomers” (50-65 anni): i primi più orientati a vini leggeri, con preferenza verso gli sparkling, da consumare fuori casa, mixati con altri alcoolici. I secondi ancorati a prodotti da abbinare ai pasti e da consumare soprattutto a casa.

 

 

+info: Osservatorio del Vino Press Office & Media Relations:
Marco Barabanti  press.unioneitalianavini@gmail.com
pressoffice@veronafiere.it

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