non per soldi…. ma per denaro (Billy Wilder, 1966)
a cura di Lorenzo Dabove detto Kuaska
Il fenomeno delle continue, inarrestabili acquisizioni di piccole birrerie da parte delle multinazionali sta sconvolgendo tutte le componenti del movimento artigianale, dai birrai stessi ai distributori, dagli ideologi ai media in generale per non parlare della categoria che più mi sta cuore, quella dei consumatori!
Eravamo abituati, sia in Italia che all’estero, all’acquisto di birrerie da parte delle grandi compagnie ma questo riguardava principalmente fabbriche che producevano lager pastorizzate. Questo avveniva e avviene in tutto il mondo. Alcune venivano e vengono chiuse mentre il marchio, consolidato tra i consumatori, rimaneva e rimane sul mercato confondendo, come si voleva e si vuole fare, ad arte, i consumatori stessi. Alcune delle acquisite venivano e vengono lasciate produrre nei loro impianti ma sempre sotto controllo decisionale, senza alcuna libertà strategica e spesso con marchi riferiti ad un territorio ma con la produzione spostata molto più lontano.
Come antico membro del CAMRA (Campaign of Real Ales) ricordo di aver indossato una t-shirt nera sul cui dorso, sotto la scritta “The Whitbread Tour of Destruction” venivano elencate, con tanto di anno di riferimento, le birrerie acquistate dalla Withbread così come si elencano le tappe dei concerti dei tour dei gruppi metallari o rockettari.
La politica della Withbread si rivelò ben presto chiarissima, comprare e chiudere le piccole birrerie per avere una posizione ancor più forte sul mercato ed eliminare birre di qualità, pericolose per l’inevitabile fidelizzazione del consumatore. La prova che si trattasse di mero calcolo del maggior profitto possibile e non di amore e passione per la bevanda nazionale, ci venne quando decise di vendere l’ultima birreria acquisita per occuparsi del settore “hotel e tempo libero”.
Ma quello che sta succedendo oggi è diverso, qui non si tratta più di acquisire lager pastorizzate, qui si tratta di comprare anime, quelle degli artigiani le cui birre, come dice un mio noto postulato, sono il prolungamento della personalità del birraio. Si tratta di inserire negli sterminati portfolio delle multinazionali birre nuove che, a differenza delle volutamente insipide ed anonime mass market lager, vantano aromi e sapori caratterizzanti e complessi che sanno dare, a livello di intensità e qualità, le stesse emozioni che ci danno grandi vini, salumi, formaggi e tutti gli altri prodotti che solo mani di artigiani possono, sanno e soprattutto vogliono fare.
L’epidemia iniziata negli Stati Uniti si è rapidamente propagata oltreoceano ma spesso come succede da noi, la gravità del fenomeno è stata completamente avvertita solo quando, nella primavera 2016, “mio figlio” Leonardo Di Vincenzo ha venduto la sua Birra del Borgo al colosso AB InBev. Ne è seguita una rissosa reazione in rete con insulti e pareri espressi, come spesso capita, da chi non era minimamente al corrente delle motivazioni né tanto meno dell’entità della transazione.
A tal proposito riporto l’intervista da lui concessa sul web a Foodcommunity.it (www.foodcommunity.it/di-vincenzo-ecco-perche-ho-venduto-ad-ab-inbev) nella quale Leonardo rivela le motivazioni della vendita. Gli voglio e gli vorrò sempre bene ma io personalmente non credo a mezza parola, specie quando parla di immutata autonomia.
Come scrissi nel mio commento su facebook, temo che nel giro di tre anni, sia lui che i prodotti Birra del Borgo verranno annientati. E pensare che c’è chi ancora sostiene che io sia stato troppo morbido! Forse solo l’insulto e la diffamazione, per alcuni, hanno valore e risonanza ma non è mai stato il caso mio. Ho anche detto che sarò il primo a cospargersi il capo di cenere nel caso mi fossi sbagliato ma credo che purtroppo ciò non avverrà.
Innanzitutto facciamo un po’ di chiarezza, anche per un motivo di trasparenza nei confronti di tutte le persone interessate: attorno a quale cifra si aggira l’affare?
Non ci piace molto chiamarlo “affare”, la nostra è stata una scelta ragionata e le motivazioni economiche sono tutte riconducibili alla volontà di continuare a produrre birra di qualità sempre maggiore. Per il resto continueremo a gestire l’azienda come abbiamo sempre fatto: Leonardo Di Vincenzo resta amministratore delegato e il team sarà quello di sempre.
Perché hai scelto di vendere?
Abbiamo scelto di legarci ad AB InBev proprio perché grazie alla sua esperienza nella produzione birraria ci aiuterà ad offrire ai nostri consumatori una scelta più ampia di birre di qualità. Questa partnership ci consentirà di tenere il passo con la crescente domanda di birra e di avere accesso ad un incredibile quantità di know-how, sia dal punto di vista tecnologico che scientifico.
Qual era la situazione economica di Birra del Borgo prima dell’accordo con Ab Inbev?
Sicuramente non ci consentiva di progettare e sperimentare come stiamo immaginando di fare adesso grazie a questa partnership. Quello che ci interessa è fare birra di qualità concentrando le energie sulla produzione di contenuti interessanti e soprattutto sulla sperimentazione, senza doverci preoccupare di tutti quegli aspetti manageriali e imprenditoriali che tolgono spazio alla creatività.
Ora qual è il nuovo piano di business?
Anche prima di questa partnership avevamo progettato di aumentare le capacità produttive di Birra del Borgo e dunque ci siamo mossi esattamente in quella direzione, per continuare a investire nella crescita del nostro birrificio ed incrementare la produzione di grandi birre.
Dopo l’annuncio, sono arrivate molte critiche da parte di alcuni protagonisti del mondo della birra artigianale (da Teo Musso a Manuele Colonna) i quali hanno fatto sapere che non serviranno più le vostre birre. Hanno preso una decisione troppo drastica?
Rispettiamo il pensiero di chi ha fatto questa scelta, non abbiamo molto da dire in proposito.
Cosa rispondi a chi sostiene che sei passato “dall’altra parte della barricata” vendendo a una multinazionale?
Rispondiamo che ai nostri consumatori interessa avere dell’ottima birra e questo non cambierà. Quello che ci ha spinti a siglare questa partnership, nella quale manterremo la più completa autonomia, è stato il bisogno di poter fare investimenti per tenere il passo con la domanda. Il nostro partner ama la birra di qualità tanto quanto noi, questo ci rende felici e molto fiduciosi circa le prospettive future.
Pensi che alla fine anche altri produttori di birra artigianale seguiranno la tua strada?
Chi può dirlo? Noi abbiamo fatto questa scelta per rispondere a una domanda crescente, per continuare a innovare e mantenere alta la qualità e la costanza nei nostri prodotti.
Che dire? È stato sincero o, come molti sospettano, Birra del Borgo aveva fatto il passo più lungo della gamba?
Forse non lo sapremo mai. Certo che se prendiamo in considerazione le preoccupanti situazioni economiche (i bilanci sono pubblici) di molti birrifici, quelli che abbiano fatto il passo più lungo della gamba o semplicemente non abbiano fatto bene i conti rischiano di fallire eccetto quelli di maggior appeal cui le multinazionali busseranno alla porta. Vedo invece un futuro radioso per chi abbia fatto bene i conti, puntando sull’aspetto imprenditoriale (distribuzione, marketing ecc.) e lavorando maniacalmente, tra l’altro, sulla costanza dei prodotti, sulla padronanza dei lieviti ed attraverso analisi di un laboratorio, se possibile, interno.
Data la rilevanza e l’internazionalità dell’argomento, ho interpellato alcuni autorevolissimi colleghi, tutti cari amici, sia europei che d’oltreoceano che hanno accolto il mio invito con entusiasmo per l’indubbia attualità e il clamore che queste incessanti acquisizioni stanno creando, oltre che nelle varie componenti del mondo birrario, anche in gran parte dell’opinione pubblica.
I lettori di Beverfood avranno così l’occasione di avere in mano non solo uno spaccato molto ampio e rivelatore di quello che stia accadendo in uno dei settori più vivaci e in fermento (nessun’altra parola sarebbe più azzeccata) dei mercati internazionali ma anche quali siano le reazioni e le profezie, a volte nefaste a volte meno, dei grandi nomi che hanno gentilmente aderito alla mia proposta.
Comincerò col dare la parola agli esperti d’oltreoceano dove il fenomeno, partendo dagli Stati Uniti, ha preso piede e si sta rapidamente consolidando.
Tomm Carroll, corrispondente da Los Angeles dell’autorevole rivista di settore Celebrator e grande conoscitore della straordinaria Renaissance americana. Ecco cosa mi ha detto.
“Da un lato, è solo business. Da quando fare birra – sia che inizi nelle case, fattorie o monasteri – è diventata una forma di commercio, e successivamente un intero settore dell’industria brassicola, la concorrenza è entrata in gioco. Ciò ha portato al consolidamento, fusioni, acquisizioni e semplicemente l’eliminazione dei propri concorrenti. Non come la teoria evolutiva della “sopravvivenza di chi più si adatta al cambiamento” divulgata da Charles Darwin.
Tuttavia, queste acquisizioni sono una tendenza preoccupante in questo periodo. Con l’eccezione del Belgio e parte della Germania e, più recentemente, la rinascita artigianale della birra negli Stati Uniti, la birra commerciale in tutto il mondo è stata dominante fino ad ora e il consumatore è stato così illuso dalla commercializzazione incessante e disponibilità onnipresente di detto prodotto. Diverse generazioni di persone non sapevano che la birra potesse essere qualsiasi cos’altro che frizzante e gialla. Tra i grandi produttori di birra al mondo, è stata una corsa verso il basso. Per loro, la parola d’ordine nella frase “business della birra” è “business”.
La rivolta contro questa omogeneizzazione e assoluta insipidezza della birra industriale è iniziata lentamente circa 40 anni fa negli Stati Uniti, in cui, non a caso, vi erano meno di 90 birrerie a livello nazionale – punto più basso in assoluto registrato nel Paese, escludendo il periodo del proibizionismo (1920-1933), quando la birra era stata bandita. Ma ora, la rivoluzione della birra artigianale americana ha influenzato quasi tutti i paesi produttori di birra di tutto il mondo.
E le grandi birrerie hanno sicuramente preso nota; da qui la valanga di acquisizioni e partnership con i piccoli birrifici artigianali. La rinascita delle birre artigianali ha dimostrato di essere una minaccia per il dominio delle grandi birrerie, che hanno quindi subito deciso che “se non puoi batterli, comprali!” per annullare lentamente la rivoluzione dall’interno attraverso la promozione, i prezzi e la distribuzione in modo competitivo tale da schiacciare i piccoli birrifici artigianali.
Come Jacob McKean, proprietario/fondatore di Modern Times, birrificio di San Diego, ha scritto recentemente nel suo blog: “L’obiettivo è quello di distruggere la birra artigianale dall’interno gestendo i birrifici acquisiti come marchi zombie, da farne scempio sul mercato dopo che la vita è stata spremuta fuori da loro.
La grande ironia è che i grossi produttori di birra devono incolpare solo sé stessi per questa insurrezione; hanno creato questo mostro di birra artigianale. Se non avessero fatto le cose così male, i birrifici artigianali non potevano avere l’incentivo ad intensificare e farlo bene. Di conseguenza, in un modo bizzarro ed ambiguo, tutti gli amanti delle craft beers devono ringraziare le grandi birrerie per la rinascita della birra artigianale.
Lunga vita alla birra artigianale indipendente!”
Proseguo con il celebre scrittore di birra canadese Stephen Beaumont che non ha certo bisogno di presentazione. Vi riporto quindi subito il suo parere.
“Il problema delle grandi società di produzione di birra che acquistino birrifici artigianali molto più piccoli ha un impatto sul consumatore a tre livelli: fisico, emotivo e intellettuale.
Sul fronte fisico, si discute se il gusto e il carattere della birra cambieranno. Certamente in alcuni dei più recenti acquisti, come Birra del Borgo e Devil’s Backbone, questo non si è finora verificato. Ma se prendiamo in considerazione le acquisizioni più vecchie come Goose Island, acquistato da AB InBev più di cinque anni fa, troviamo che una trasformazione si è certamente verificata, con birre come Honkers e Goose IPA che hanno richiesto cambiamenti nei luppoli e nel lievito, per non parlare del processo produttivo. La mia opinione è che sia ragionevole sospettare che le modifiche dei produttori di più recente acquisizione, si verificheranno nel corso del tempo.
Emotivamente, i bevitori devono affrontare una situazione in cui un birrificio con cui hanno nel corso degli anni costruito un rapporto a volte molto personale venga trasformato durante una notte in una parte di un’impresa di gran lunga più grande. Questa situazione viene complicata ulteriormente dal fatto che gran parte del successo sperimentato fino ad oggi dal settore globale artigianale si è basato su una semplice dicotomia “noi contro loro”, intendendo con ‘noi’ il puro, locale, amichevole birrificio artigianale e il ‘loro’ la società internazionale senza volto.
E, infine, il lato intellettuale entra in gioco quando i consumatori di birra devono decidere come spendere i loro dollari. In questa epoca di cosiddetto comportamento ‘locavore’, soprattutto dove il cibo e bevande sono legate a provenienza locale, la nozione di spesa in dollari che danno utili alle multinazionali suona stonato per molti consumatori. Per questo scelgono di non sostenere il birrificio acquisito ma piuttosto spostare la loro fedeltà a un altro birrificio artigianale.”
Portiamoci ora in Brasile, paese dove il fenomeno artigianale sta letteralmente esplodendo, ascoltando l’opinione di Alexandre Bazzo, giudice internazionale e stimatissimo birraio del pluripremiato birrificio Bamberg di San Paolo.
“A mio avviso, le grandi birrerie stanno cercando di arrestare lo sviluppo del movimento birraio artigianale, quando le artigianali tornarono negli States, intorno agli anni Ottanta, pensarono si trattasse di un fenomeno passeggero, oggi invece vedono il potere che le artigianali hanno nel loro paese. Le grandi birrerie non vogliono ripetere lo stesso errore negli altri paesi.
Vediamo cosa succede in Brasile dove fanno lo stesso discorso, cioè che stanno per migliorare la logistica, il prezzo, le attrezzature, ma quello che stiamo vedendo nella vita reale è l’opposto, stanno offrendo un prezzo molto basso solo per fermare la vendita delle vere birre artigianali in determinati luoghi.
Ma noi abbiamo nella nostra parte del cliente che vuole bere birra artigianale vera e propria, che sa di birra e ha la libertà di scegliere quello che vuole bere. Noi, birrifici artigianali indipendenti, vinceremo questa battaglia”.
Spostiamoci ora in Europa dove, sia nei paesi di lunga tradizione brassicola che in quelli emergenti fino a pochi anni fa dominati dalle sole multinazionali, troviamo birre cosiddette “craft” un po’ dappertutto con una vertiginosa crescita di beer-shops, locali moderni, a volte simili tra loro per l’impostazione, la tipologia, l’arredamento (immancabile la lavagna nera con birre scritte in gessetto bianco) e l’offerta, che io chiamo “contemporary pubs” nonché di nuove proposte che hanno nei sempre piu numerosi “gastropubs” la loro figura più emblematica.
Parto dal mio adorato Belgio dove sempre più frequentemente trovo, ahimè, birre con nomi chiaramente rivelatori dell’influenza americana tipo “Double Hop”, “Tripel Hop” fino all’inquietante “Belgian Coast IPA”.
Qui la situazione si fa ancor più complicata per l’acquisizione, già in atto da anni ma ora più pressante, di piccole birrerie non solo da parte delle multinazionali ma anche da birrerie locali di ampie dimensioni e con obiettivi e strategie che sembrano, sottolineo sembrano, più umane e meno invasive.
Per rispettare la “par condicio” così politicamente importante in Belgio, avremo l’opinione di esperti sia di etnia fiamminga che francofoni della Vallonia.
Partiamo dal carissimo amico fiammingo Carl Kins di Kortrijk, compagno di tante avventure e oltretutto grande conoscitore del mondo birrario americano e delle sue dinamiche.
Carl parte subito lancia in resta.
“Tutta una questione di soldi, signore e signori della birra.
Ci sono tre possibilità.
- Ci si trova in difficoltà finanziarie.
- Vi è una mancanza di denaro sufficiente per continuare a crescere.
- Non ci sono successori che si trovano nella famiglia ed i proprietari cercano di vendere la società, in modo che possano andare in pensione.
Qualunque sia la ragione, la grande azienda entra con un enorme mucchio di soldi, paga al di sopra dei prezzi logici, se riferiti alle performance passate e presenti proiettate verso una crescita autonoma.
Le ragioni per farlo, sono:
- La ricerca di aumentare pesantemente i marchi acquisiti, applicando soprattutto le tattiche rivolte al taglio dei costi (materie prime di qualità inferiore, velocizzazione del processo produttivo, fermentazione ad alta gravità, fare birra in grandi impianti lontani dalle origini, servire in pezzature più piccole – ad esempio 40 cl invece di 50 cl, …) mentre viene investito più denaro per il marketing e la distribuzione (prezzi più bassi, più pubblicità e gadget, più punti vendita dove la birra può essere reperita, …). Guardate AB InBev con Goose Island, o Heineken con Lagunitas. E così via.
- Allontanare i concorrenti e questo può essere visto in due modi:
In passato, una grande azienda acquisiva un piccolo concorrente e lo chiudeva, uccidendo la concorrenza, mentre allo stesso tempo manteneva le loro attività (pub principalmente affittati o mantenimento di grandi marchi).
In alternativa, attraverso l’acquisto di una piccola azienda, evitano che i loro più grandi concorrenti lo facciano per primi, incrementare i marchi. Esempio AB InBev acquistò Bosteels, evitando così che fosse Heineken a farlo prima.
Tutto sommato, tutto ciò che è stato detto (prezzi più convenienti per le materie prime attraverso gruppi di acquisto, accesso a capitali altrimenti non disponibili, supporto e l’aiuto dai migliori produttori del gruppo, …) o qualsiasi altra cosa sia stata promessa (nessun cambiamento di ricetta, nessun trasferimento di produzione, …) non importa.
Si tratta solo di denaro. Più prima che poi, l’impatto sui prodotti finali del birrificio acquisito sarà sentita e al 99% (se non al 100%) in peggio, non certo in meglio.”
Ora passo la parola al vallone Chris Gillard, giudice internazionale e gestore di uno dei più importanti beer-shops del mondo il Mi-Orge Mi-Houblon di Arlon.
“Da diversi anni siamo di fronte ad una ondata di acquisizioni di microbirrerie da parte di grandi gruppi multinazionali. Per comprendere l’impatto di queste acquisizioni, dobbiamo innanzitutto porci la domanda del perché ciò avvenga. Perché un gruppo molto potente e già grandissimo acquisterebbe un microbirrificio di poche migliaia di ettolitri, una goccia della produzione globale sotto il controllo di alcuni gruppi. Ci sono diverse possibili spiegazioni.
- Per avere accesso a referenze che normalmente sono rappresentate solo dalle microbirrerie. Infatti una volta sotto il controllo di un grande gruppo, non è mai, o raramente, menzionato. Solo la birreria nominale è informata. Un negozio che ha referenze del birrificio da qualche anno certamente continuerà a farlo ma il gruppo, è presente “sul posto”.
- Per rifarsi una verginità. Se un grande gruppo decide di far uscire una birra di carattere e di qualità ne è totalmente capace, senza alcun dubbio, ma quale sarà il pubblico da raggiungere? I quarantenni? No, perché la birra sarà troppo inquadrata. Gli appassionati sperimentati? No, perché spesso i grandi gruppi sono boicottati da quest’ultima categoria e, anche se la birra è buona sarà denigrata come prodotto di un gruppo. Per contro acquistare un marchio di un produttore che fa ottime birre, permette di avere nel loro portfolio birre che beneficiano di una bella aura. Esempio: l’Equilibrista di Birra del Borgo. Se AB InBev avesse fatto uscire una birra al mosto d’uva e col metodo champenoise nessuno se ne sarebbe interessato. Invece il 99% dei consumatori che acquistano questa bottiglia non sa chi c’è dietro. Lo stesso con la Karmeliet Triple … chi lo sa – tra i consumatori – che la birreria Bosteels sia stata acquisita da AB Inbev.
Attualmente due nuove tendenze stanno emergendo – l’acquisizione di nomi – gli acquisti di parte del capitale per essere maggioritari dato che la legge non obbliga a informare dove la birra sia prodotta, il fatto di acquistare un marchio e di farlo produrre in un altro luogo non pone legalmente alcun problema e permise qualche mese fa ad AB Inbev di acquisire una birra biologica molto marginale in termini di volume. Anedottica? Assolutamente no! Oggi una birra biologica è nel portfolio di AB Inbev che se avesse essa stessa fatto uscire una birra bio non sarebbe stata altrettanto credibile. L’acquisizione delle quote permette di prendere il controllo di un birrificio senza che il pubblico ne sia consapevole. Da tempo si assiste anche all’acquisizione di siti di vendita in rete di materiale per birrai casalinghi e di produttori di luppolo… Il movimento artigianale ha preso importanza e i gruppi non si augurano di perdere una parte del mercato che sta crescendo nel corso degli anni. L’accesso ai luppoli rischia di diventare sempre più difficile per le birrerie che non fanno parte di questi gruppi perché hanno strangolato il mercato. Uno dei rischi, danno collaterale, è che nuovamente il gusto del consumatore venga preso in ostaggio…
Cosa sicura (gli esempi sono numerosi) che il gusto delle birre evolvano dopo l’acquisto (direttive per quanto riguarda l’uso di materie prime, produzione di birra in luoghi diversi, la politica di redditività per ridurre i costi (brassare ad alta densità, ecc). Alcuni sosterranno che non importi chi ci sia dietro la birra se il gusto sia buono… è fregarsene dell’etica! C’è una distinzione enorme tra una birra di un artigiano e una birra di un gruppo.
Quando si compra una birra di un birraio indipendente questi soldi gli servono ad amplificare il suo strumento, la sua impresa… e a pagare lezioni di danza a sua figlia. Invece comprare birra di un gruppo è arricchire degli azionisti che hanno poca o nessuna considerazione per l’essere umano. Allora sì, una birra che era geniale prima dell’acquisto resta geniale anche dopo… ma la filosofia non è più la stessa e il suo gusto diventerà più “amaro”.
Sentiamo ora cosa pensa di questa tendenza il notissimo scrittore ed esperto inglese Adrian Thierney-Jones.
“Sembra che i miei pensieri siano condizionati da chi acquisti il birrificio. Se si tratta di qualcuno come Moortgat, io sono assolutamente ok su di esso. Anche A-B sembra lasciare i birrifici acquisiti andare per la propria strada, ma mi addolora ancora di vedere un birrificio che ho amato, perdere la sua indipendenza, non importa quanto i vecchi proprietari parlino della necessità di denaro per aggiornare le attrezzature, raggiungere più persone, vendere più birra (mi viene in mente Ballast Point).
Diversi anni fa visitai birrifici del Vermont e uno di essi era stato acquistato da uomini d’affari in cerca di capitali di rischio – il mastro birraio era in gamba e gli piaceva sperimentare. Un anno dopo gli mandai una mail per un’interessante birra legata al vino che aveva fatto ma sembrava che non gli fosse più permesso di sperimentare.
Inoltre non si deve dimenticare che le birrerie sono affari e quando qualcuno arriva con un mucchio di denaro ci vuole l’etica di un santo per dire di no – quanti di noi potrebbero resistere?
Camden fa ancora birre che voglio bere ma vi racconto una storia.
Poco prima di Natale sono andato a una degustazione di Goose Island Bourbon County Stout. Questo è stato il mio primo assaggio della birra dopo alcuni anni e sicuramente dopo quando la società fu acquistata da Anheuser-Busch. Non era male, ma so che ci sono un sacco di birrerie più indipendenti là fuori che fanno stout barricate e l’ho trovata esile (più tardi ho scoperto che ora viene pastorizzata perché lotti dello scorso anno hanno avuto problemi – ho pensato che l’infusione di denaro delle compagnie avrebbe risolto). È ancora molto bevibile, ma ho avvertito che aveva perso un po’ della sua anima – è stato questo a causa della A-B o il mio palato è cambiato negli ultimi anni?”
Interessante sottolineare come l’esperto e giudice svedese Andreas Fält, grande conoscitore di birre europee ed americane, non sia negativo a priori e non ne faccia certo un problema di ideologia.
Vi riporto le sue parole.
“Ammetto di non avere un vero problema con questa tendenza. Fino a quando i Big Boys non cambiano la filosofia del birrificio, non cambiano le ricette o non si sbarazzano del personale non vedo ragioni per cui non dovrebbe funzionare.
È molto probabile che beneficeranno del marchio per raggiungere un pubblico più ampio e quindi portare birre di buona qualità alle masse. Se comprano birrifici più piccoli con l’intenzione di arrestare la concorrenza o semplicemente per chiuderli, penso che possano andare all’inferno.
Ma spero che i Big Boys abbiano imparato la lezione degli anni ‘80 e ‘90 quando esattamente questo è accaduto. Se supportano il birrificio che hanno comprato, lasciandogli vivere la propria vita, non vedo alcun problema”.
Fin qui abbiamo avuto una larga panoramica delle opinioni di esperti e opinion-leaders stranieri. Ora è giunto il momento di sentire il pensiero di alcuni dei nostri birrai più rappresentativi, pionieri compresi, tutti protagonisti del movimento artigianale che sta guidando la cosiddetta “Craft Beer Revolution” che sta dilagando in tutto il mondo, specie in paesi, senza lunga tradizione birraria, dominati dalle mass-market-lagers, ora in pieno fermento, nei quali sembra di essere da noi 15 anni fa.
Ho chiesto loro di dirci, oltre la personale opinione sul “tema del giorno” delle acquisizioni, come si comporterebbero davanti ad una grossa offerta. Come non cominciare con i due top leaders che da oltre 20 anni sono in prima linea senza mostrare il benché minimo accenno di stanchezza e cedimento.
Diamo la parola a Teo Musso, il carismatico fondatore dell’ “Universo” Baladin di Piozzo (CN).
“Era quasi inevitabile che le multinazionali – il cui scopo è di fare propria la percentuale maggiore del mercato in cui operano – decidessero di concentrarsi anche sulla nicchia di mercato rappresentato dalla produzione artigianale. Chiaramente questa nicchia ha raggiunto dei valori (a livello mondiale) preoccupanti per questi colossi. Le mosse messe in atto per contrastare o contenere il fenomeno sono note a tutti e quella delle acquisizioni ne è un esempio che però, ritengo, risulta essere il più preoccupante e delicato da analizzare. Non si tratta solamente di acquisire delle competenze artigiane ma di creare confusione in chi beve la birra artigianale. Probabilmente non negli appassionati più preparati ma sicuramente in quelli che approcciano il prodotto senza (cosa assolutamente lecita) approfondire chi lo stia producendo. Le multinazionali hanno un grande potere a livello di risorse finanziare per creare la comunicazione e raggiungere un grande numero di potenziali clienti e a livello di distribuzione per creare i presupposti che creino delle barriere all’entrata per i birrifici di dimensioni più contenute. Non abbiamo altra scelta se non fare fronte comune noi birrifici artigianali per amplificare la nostra voce e creare coscienza e consapevolezza nel consumatore.
Baladin ha già ricevuto qualche avance. Non è mio interesse cedere l’attività tanto che ho impresso sul muro d’ingresso del birrificio la parola “indipendente”. Scelta fatta, dobbiamo concentrarci per sostenere quanto costruito fino ad oggi e quanto andremo a fare in futuro. Non sarà facile visto l’evolversi del mercato ma sono fiducioso che facendo rete avremo la possibilità di mantenere la nostra identità. Oggi, a differenza del passato, abbiamo strumenti di comunicazione di massa fruibili e che dobbiamo sfruttare per creare conoscenza. È giusto provarci. Mi auguro che il mercato sostenga la mia visione e che in futuro non sia costretto a dover riflettere ulteriormente su questo tema”.
Subito, a ruota, ascoltiamo l’altro capostipite Agostino Arioli fondatore del Birrificio Italiano, trasferitosi dalla storica sede di Lurago Marinone nella vicina Limido Comasco.
“Niente da dire a livello personale e niente da dire a livello imprenditoriale se non semmai un encomio solenne a Leo per essere arrivato “così in alto” e in così pochi anni. Non si può fare una colpa a qualcuno perchè coglie o costruisce una buona occasione di profitto. In fondo l’impresa ha proprio quel fine: fare soldi. Che abbia venduto perché non poteva farne a meno o semplicemente perché ne sentiva arrivato il tempo, fa poca differenza.
Da dove arriva il cattivo odore che emana dall’affare Borgo allora? Innanzitutto ci si sente traditi, anche se in verità se un tradimento c’è stato risale all’ingresso di Leo in Assobirra, prima tra le scelte che hanno allontanato Leo dai “puristi” tra i quali pure io mi annovero. Una scelta che si è dimostrata efficace per i suoi interessi ma che ha creato una frattura tra i birrifici e l’inizio del peccato originale che sta portando alla perdita di genuinità e di identità della birra artigianale. Ho sempre sostenuto che l’industria si sarebbe appropriata di noi se avessimo dato spazio all’equivoco e infatti così è stato. Prima si sono appropriati della immagine e del lessico (vedi lo scippo della parola Birrificio) producendo le cosiddette fake e inventando nuovi marchi e ora ci comprano proprio. Non bastava cavalcare un mercato che abbiamo creato noi con tanto sudore e lavoro. E Leo ha venduto ai più grandi e quindi ai peggiori e questo fa senz’altro incazzare.
Il motivo principale di questa acquisizione è senz’altro legato alla distribuzione. Gli mancavano marchi artigianali validi e credibili e così se ne sono comprati uno. Niente di strano, il problema è che con questa mossa avranno parola importante o addirittura definitiva sui prezzi. Potrebbero quindi tenere prezzi bassi per entrare a tutti i livelli del mercato. Se i piccoli birrifici non staranno al passo saranno allora e per sempre fuori così che Del Borgo ed eventuali altri marchi acquisiti nel prossimo futuro saranno “La Birra Artigianale” per il grosso pubblico, che si sa, anche se non è proprio esperto, è comunque quello che fa la differenza assoluta in termini di volumi. Per quanto riguarda l’export, dove l’unico problema della birra artigianale italiana è il prezzo, la situazione si prospetta anche peggiore, ahimè. Resteremo relegati nella piccolissima nicchia in cui ci troviamo ora? È possibile se non probabile. Personalmente tutto ciò mi sprona a tenere la barra e navigare sempre più dritto nella direzione e con la visione che ho sempre avuto.
E io che farei o che farò? Ci sono tante possibilità di sinergie con altri birrifici fino ad arrivare alla fusione o anche alla cessione ma tutto ciò si può e si deve fare nell’ambito della birra artigianale. Quindi, visto che non escludo affatto che arrivi un momento per farlo (banalmente anche solo per garantirmi una pensione decente) in quel caso cercherò con tutte le forze di far si che il marchio resti veramente artigianale e che non diventi un Golem senz’anima!
Jurij Ferri, padre abruzzese e madre svedese, ex-chef e talentuoso fondatore del birrificio Almond 22 di Spoltore (PE) ci dice la sua.
“Alla prima domanda: In tutti i settori avvengono acquisizioni di aziende medio – piccole da parte di multinazionali, quindi perché non dovrebbe succedere nel mondo della birra artigianale? Personalmente credo che anche qui in Italia ci saranno diverse acquisizioni. Probabilmente alcune anche poco facili da prevedere. Siamo troppi birrifici in un Paese con un consumo di birra notoriamente basso. Questo ha portato a una vera e propria battaglia per conquistare uno share del risicato mercato. Ha anche causato una crescita estremante lenta di molti birrifici che fanno buona birra. Il fenomeno in sé stesso, non mi preoccupa troppo.
Da non escludere che potrà dare qualche grattacapo a noi birrifici più piccoli.
Alla seconda domanda: Sono sempre stato un birrificio fuori dai trend. Ho sempre difeso l’idea di fare birre con personalità, che rispecchino il birrificio e non il mercato. Questo ci ha chiaramente anche un po’ penalizzato facendoci crescere costantemente ma lentamente. Non credo di essere un birrificio appetibile per una multinazionale e credo che potremmo cedere Almond solo per salvare i nostri posti di lavoro e il nostro futuro. Sono scelte difficili e che non faremmo a cuor leggero. Ho rinunciato tempo fa all’idea di fare soldi con questo mestiere/scelta di vita. Buona birra a tutti!!!”
Portiamoci nella troppo poco conosciuta (non certo da noi birrofili ) Nicchia, la zona delle colline tortonesi che può vantare una serie di “gemme” (odio la parola “eccellenze”) gastronomiche da urlo come il formaggio Montebore a forma di piccola torta nuziale, il salame del Giarolo detto “nobile” perché, dato che qui non si usa fare prosciutti, utilizza le parti nobili del maiale, la Pesca di Volpedo, la ciliegia Bella di Garbagna, la fragolina di Tortona, il vino Timorasso, un bianco che nel palato sembra un rosso, resuscitato dal grande Walter Massa e, last but not least, le birre di Montegioco create da Riccardo Franzosi con originalità ma con stretto legame all’amatissimo territorio. Sentiamo Riccardino.
“Cosa ne penso della vendita di un microbirrificio ad una multinazionale?
Per prima cosa vien da dire: “ma belin a chi vuoi che lo vendano?! A chi non ha i soldi?!”. Poi, se vogliamo farci un’idea, sarebbe interessante sapere se qualcuno vende perché è stufo di portare a casa soldi (tipo che dopo un po’ che li usi d’accendere la stufa scopri che va bene anche l’altra carta e allora cosa lo tieni a fare un birrificio?) o magari vende perché è stufo di “mettercili” i soldi; uno può vendere perché monetizzare è il suo obbiettivo e cerca di fare le cose per bene con tutte le lucine e gli optional per fare colpo e guadagnare di più; si può vendere perché si è stufi e cerchi di spremere qualche goccia di sangue dalla rapa che hai coltivato per anni. Tutti sono nel buono e nel giusto se vendono, magari anche bene, diverso è il pensiero di quel che resta dopo la vendita ma questa è un’altra storia.
Venderei se avessi delle offerte da una multinazionale? Il mondo è metà da vendere e metà da comprare e io non sono il birrificio ma faccio birra, è ovvio che non sarebbe più un microbirrificio ma una voce di bilancio nel business di un’azienda, quindi potrebbe essere e poi c’è sempre il sidro nèh!”
Schigi, al secolo Luigi D’Amelio, noto sommelier e conoscitore di vini, diventato geniale birraio dell’emergente Birrificio Extraomnes di Marnate (VA) è noto per non avere peli sulla lingua e, come dico io, da lui considerato come un fratello maggiore, per non saper contare “fino a tre” prima di scrivere sui social.
Eccolo qua:
“Sento commenti del tono…eh davanti a così tanti soldi…come si fa a dire di no. Questo è secondo me il segno che ormai viviamo in una società veramente malata, più malata di quanto mi sarei aspettato.
Gli ideali e i progetti personali non contano più nulla, quasi a livello dei calciatori, che nel fiore degli anni e con una splendente carriera nel calcio che conta, decidono di andare a giocare in Cina per “una proposta che non si poteva rifiutare” e c’è chi fa il conto di quante migliaia di euro guadagnano all’ora. E io penso…e quindi? Sono i soldi la felicità? Non credo. Che soddisfazione c’è a non partecipare più alle manifestazioni con le persone, i colleghi, i luoghi, che hanno contraddistinto la tua passione? Rallegrarsi per un cliente che ti stringe la mano perché la tua birra gli ha regalato delle emozioni? Eh ma bisognerebbe trovarcisi… Parli tu perché il birrificio non è tuo…chi sa cosa vuol dire mandare avanti un’azienda in Italia capisce…. NO, NESSUNA SCUSA. Chi fa questa scelta non ha la pistola puntata alla tempia e deve sapere che è una scelta indifendibile e che oltretutto oltre a far scomparire in un solo colpo tutto quello che ha fatto negli anni di lavoro con cuore e passione mette a rischio anche la passione di altri, perché permette di costruire all’industria un pezzetto di territorio “grigio” in cui il consumatore farà sempre più fatica a distinguere e a discernere dove stanno le cose buone e vere e dove stanno le cose cattive e finte.
Riguardo eventuali offerte da multinazionali, se dovesse accadere… Non sono decisioni che prendo io… Ma un piccolo gossip lo posso offrire. C’è stato, diciamo così, un abboccamento, un’esplorazione…Ma è stato prontamente respinto, e questo mi dà tranquillità”.
Fausto Marenco che con Massimo Versaci, forma l’affiatatissima “strana coppia” che dirige con grande intelligenza il Birrificio Maltus Faber nel sito che ospitava, a inizio ventesimo secolo, la storica Birra Cervisia, da buon genovese è “di poche parole” (solo io rappresento la classica eccezione) e ci regala queste brevi ma ficcanti considerazioni.
“Commento su argomento acquisizione birrifici artigianali da parte di multinazionali. Non c’è nulla di cui stupirsi è un processo normale che ha già interessato (ed interesserà ancora) altri settori artigiani e questo vale sia per il food e per il non-food.
Su un’eventuale offerta, aspettiamo che ce lo chiedano. E come per qualunque altra cosa (avvenuta sino ad oggi in Maltus Faber), eventualmente, faremo le nostre valutazioni.”
Più loquace è Lorenzo Guarino, birraio del Birrificio Rurale di Desio (MB) che si è meritatamente guadagnato la stima ed unanimi apprezzamenti grazie a birre che fanno della costanza, della qualità e della beverinità i loro punti di forza. Sentiamolo.
“Commento sulla notizia. Ricordo, quando venni a conoscenza dell’acquisizione di Birra del Borgo, sentimenti contrastanti. Da un lato dispiacere perché uno dei microbirrifici italiani più grandi fondato da un amico di vecchia data era passato di mano, e in che mani. Dall’altro la considerazione che anche il nostro mercato inizia ad assumere dei tratti di maturità, e questo è certamente positivo. È un processo osservato in altri mercati più maturi del nostro, potevamo aspettarci che la nostra nazione ne fosse esente? Io penso proprio di no. Accadrà ancora? Non saprei ma ciò non mi stupirebbe.
Reazione a fronte di una proposta del genere nei nostri confronti. Partiamo da un presupposto, l’indipendenza è un valore assoluto ed indiscutibile, ed è questo ciò a cui punta con forza il Birrificio Rurale, ad una crescita sana nel rispetto dei nostri valori, fra cui annoveriamo l’indipendenza. Devo però aggiungere che il ragionamento appena proposto, sebbene sia un obiettivo da perseguire con forza, non può essere un dogma. Questo è solo per dire che è difficile se non impossibile giudicare operazioni di questa entità dal di fuori, senza essere a conoscenza di dettagli e motivazioni che portano a prendere decisioni così importanti”.
Valter Loverier, creatore del Birrificio Loverbeer di Marentino (TO) non ha bisogno di presentazioni. Dico solo che le sue birre legate all’utilizzo della botte e della frutta hanno stregato appassionati italiani e stranieri tanto che Valter esporta circa il 70% della sua produzione all’estero, principalmente negli Stati Uniti dove viene considerato una vera “star”. Ecco cosa ci ha detto.
“Commento sull’argomento. Penso che dipenda dagli obiettivi del microbirrificio. Se sono puramente di natura economica (questo non vuol dire necessariamente che il prodotto non sia di buona qualità) l’acquisizione può essere un traguardo da cui trarre evidenti risultati economici. Ma se il motore che muove il progetto è prima di tutto di natura emozionale, alimentato da una passione che porta a affrontare difficoltà senza compromessi, forse allora il matrimonio non s’ha da fare.
Alla tua domanda “se una multinazionale ti chiedesse di vendere cosa faresti e perché” rispondo di stare tranquilli. Non credo che questo possa succedere. Però, nel caso, chi lo sa…”
Dicono che i friulani siano di poche parole ma fa eccezione, per noi, il bravissimo ed umile Gino Perissutti, birraio del Birrificio Foglie d’Erba di Forni di Sopra (UD) che nella sua fatata Carnia idea e crea birre di grande valore che sanno suscitare emozioni, fattore che rappresenta per le birre artigianali una delle principali differenze con le birre industriali.
Di seguito le sue risposte a quanto richiesto:
“Sull’argomento acquisizioni penso sia nell’ordine di come “gira il mondo” sempre più globale privo di anima che ci circonda, anche nel settore birra. Mi spiego meglio: alle multinazionali interessa una sola cosa, il profitto. Tutte le moine commerciali che lasciano intuire qualcosa di diverso sono semplici operazioni di marketing per gettare fumo negli occhi del consumatore finale. Pertanto, nell’ottica del profitto, quando le multinazionali, perfettamente consapevoli che il mondo “craft” è più buono, etico e salutare, più vivo ed innovativo, si rendono conto che la percentuale di mercato guadagnato dai birrifici craft aumenta, che ne aumenta la popolarità e l’interesse da parte del consumatore medio, fanno una cosa semplicissima: comprano e controllano. Se serve a loro in qualche maniera, sempre per un puro fine votato al profitto, ti tengono in vita con qualche autonomia. In caso contrario, ti lasciano semplicemente galleggiare sotto al loro controllo.
Se ricevessi una proposta di acquisizione da parte di una multinazionale, non avrei il minimo dubbio nel rifiutarla. Pur rispettando ovviamente il pensiero e le scelte altrui, magari dettate dai più vari motivi che solo gli addetti ai lavori conoscono, credo di non aver personalmente nulla da spartire con la filosofia di una multinazionale. Piuttosto chiudo, mi invento un altro lavoro e torno all’homebrewing per divertirmi. Amo profondamente il mio lavoro, che cerco di svolgere con passione ed approccio quanto più “etico” possibile e credo che sia un errore enorme, non solo in ambito birra ma per tutta la filiera agroalimentare e, più in generale, di piccolo o medio commercio di cibo e bevande di qualità, veder scomparire le piccole produzioni di territorio e di eccellenza in maniera passiva. Così come le botteghe, le taverne, le trattorie, a fronte di uno spaventoso aumento di Centri ed Aree Commerciali, che appiattiscono il nostro gusto e pensiero sull’argomento. Dobbiamo stare all’erta e, mai come ora, unirci per evitare lo sperpero di risorse umane e materiali enorme o potenzialmente molto importante, come nel caso del settore craft italiano. Ora più che mai dobbiamo gridare a noi stessi ed ai consumatori che La Birra Italiana di Qualità esiste. E che è più buona, sana e giusta di quell’altra. Prendiamone consapevolezza, uniamoci e non cediamo alle false lusinghe del “nemico”. O, detto in termini più moderni: “Support your local Brewery”.
Ho interpellato Alessio Selvaggio del pluripremiato Birrificio Croce di Malto di Trecate (NO) e mio allievo della prima ora durante le innovative e pioneristiche serate di degustazione ospitate da Stefano Leoni nel suo pub La Frottola di Vigevano (PV) nelle quali parteciparono, all’epoca come semplici appassionati e/o homebrewers, alcuni birrai ma pure publicans ed opinion-leaders, affermatisi da lì a poco nei rispettivi campi.
“È del tutto evidente che ormai il movimento della birra artigianale, parlando di mercati globali, stia sottraendo fatturati ai grandi gruppi industriali. La conseguenza storica nel nostro settore è quella delle acquisizioni di nuovi brand che si impongono sul mercato, potrei citare “mille” casi degli anni passati, per cui non mi sorprende vedere queste acquisizioni anche nel nostro paese.
Chiaramente sono queste manovre strategiche che “distraggono” il consumatore il quale come sappiamo è subissato di offerte di birre che sotto lo sesso termine legislativo, possiamo riassumere in: industriali, industriali ma fintamente artigianali, ex-artigianali controllate dai gruppi industriali ed alla fine della lista le nostre vere artigianali.
In tutto questo brodo in Italia, che è l’ultimo paese per consumi pro-capite di birra in Europa, quindi un mercato benché vivace molto lento dal punto di vista della velocità di crescita dei micro, non riusciamo a coalizzarci come potremmo a livello istituzionale/associativo per difendere il nostro lavoro con gli strumenti che abbiamo a disposizione, basti pensare al fatto che siamo l’unico paese al mondo che ha una definizione per legge di Birra Artigianale, la quale per quanto non perfettamente aderente allo stato dell’arte, oggi è uno degli strumenti che potrebbe essere utilizzato meglio per enfatizzare il lavoro dei micro italiani. Nel breve periodo la capacità di competere sui mercati dei microbirrifici italiani deve passare, tra le altre cose, attraverso scelte imprenditoriali oculate (oggi più che mai è vietato buttarsi sul mercato alla cieca), tra cui la corretta comunicazione del vero artigianale, sistemare l’apparato legislativo sui temi etichettatura ed accise con riferimento alla modalità di accertamento delle accise e la riduzione della stessa (che sono due cose molto diverse tra loro), tutte questioni che possiamo risolvere a livello istituzionale ed associativo e che porteranno un numero importante di gradi di libertà agli imprenditori della birra artigianale che meglio potranno competere sui mercati del futuro.
Guarda, su una cosa io e Federico Casari (socio di Croce di Malto) senza neanche averne mai parlato siamo completamente allineati ed è il concetto di indipendenza, non è una questione di moda, filosofie strambe o pensieri di massa, ma è semplicemente la conseguenza delle nostre scelte di vita, chi per un motivo chi per l’altro abbiamo intrapreso attività lavorative (prima di Croce di Malto) sostanzialmente aliene la mondo dell’industria, dietro a queste scelte ci sono molti ragionamenti difficili da esporre in poche righe, ma voglio darti la garanzia che proteggeremo il nostro marchio ed il nostro lavoro affinché possa mantenere l’identità che in questi anni si è guadagnato. Quindi la risposta è NO, perché credo che oggi Croce di Malto possa proseguire il proprio cammino nel piccolo mondo delle birre artigianali con lo stesso DNA di 8 anni fa; abbiamo sfidato il mercato quando erano acerbi, le sfide del futuro saranno sicuramente più difficili rispetto a quando abbiamo iniziato, ma ci siamo strutturati per affrontare i mercati da qui alla nostra pensione! Quale la ricetta…? Riadattarsi continuamente, questo faremo osservando sempre da vicino ed in prima linea le repentine metamorfosi del nostro settore, e sempre affianco ai nostri “sacri” consumatori”.
Samuele D’Imperio, giovane rampante imprenditore piemontese con laurea e master in Economia in tasca, ha aperto nel 2014, nell’incantevole isola di Gozo a Malta, il suo Lord Chambray, un birrificio di successo che, nonostante la giovane età, ha già vinto medaglie nelle competizioni europee più prestigiose. Sentiamo come la pensa in merito.
“Sulla tendenza di acquisizione di piccoli birrifici da parte delle multinazionali, quello che si sta verificando nel mondo birraio e ormai la prassi in qualsiasi altro settore. L’effetto della globalizzazione porta le grandi aziende/multinazionali ad acquistare società per mantenere quote di mercato.
Se una multinazionale un giorno dovesse bussare alla mia porta vorrà dire che gli sforzi e i sacrifici fatti negli anni hanno portato interesse per quanto fatto. Il birrificio è un’azienda e come tale la cosa più importante è la continuità aziendale sia per il prodotto che per le persone che ci lavorano. Se un’acquisizione da parte di una multinazionale permette di creare una sinergia tale da poter crescere sul mercato senza snaturare la propria attività, non ci vedrei niente di male”.
Chiudo col botto, intervistando “mio fratello di sangue” Jean Van Roy, birraio della Brasserie Cantillon (superfluo aggiungere altro) leader indiscussa nel produrre ed assemblare lambic tradizionale.
Jean, dicci la tua opinione sull’irresistibile tendenza dell’acquisizione di piccole birrerie da parte delle multinazionali.
Le multinazionali della birra si sono rese conto un po’ tardi dell’importanza del movimento artigianale. Le loro reazioni sono state tardive ma bisogna ben ammettere che da due-tre anni, i gruppi internazionali hanno molto bene compreso come potevano mescolarsi con la massa dei birrifici artigianali. Hanno molto bene assimilato le modalità dei “consumatori di birra artigianale” e si adattano perfettamente per farsi passare da piccole birrerie che producono qualità. Si sarebbe potuto credere che avrebbero ripetuto lo stesso modo di fare di quarant’anni fa, si acquista una birreria, la si chiude e si continua a fare la birra altrove sotto lo stesso nome.
Oggi le multinazionali lavorano intelligentemente e con potenziale finanziario senza fine. Senza una reazione reale del mondo artigianale (birrai, distributori, consumatori…) questi “falsi artigianali” trasformeranno chiaramente il mercato del futuro prossimo. Lo scopo finale di queste multinazionali è sempre quello di guadagnare il maggior denaro possibile! E per questa ragione, io dubito che a termine, tutte queste piccole birrerie acquistate a peso d’oro possano continuare a produrre nelle loro installazioni. Almeno una parte importante della produzione sarà fatta in mega-birrerie con una perdita di qualità per le birre e per i consumatori.
Davanti ad una grossa offerta per vendere la tua birreria, cosa faresti e perché.
Rifiuterei evidentemente! Cantillon non è solo una birreria che fa birre di successo. È un luogo che nel corso del tempo si è caricato di storia e che oggi rappresenta una vestigia vivente del passato molto ricco del mondo brassicolo bruxellese. È una birreria dove anche i muri, i soffitti e i pavimenti giocano un ruolo nell’inseminazione e dunque sarebbe impossibile riprodurre la stessa birra altrove. Infine, è una birreria in cui la famiglia s’è battuta per decenni per salvare una birra mitica, il Lambic.
Vendendo, avrei l’impressione di perdere la mia anima e di tradire i miei avi, ecco perché non è questione di rispondere a un’offerta di acquisto, qualunque essa sia!”.
Spero di aver fornito ai lettori un ampio e variegato panorama in modo che ognuno possa farsi la propria opinione in merito ad un tema che sta accalorando e preoccupando tutti gli attori di un mondo che all’apparenza sembra piccolo ma che in realtà rappresenta un nuovo, anzi inedito, ed importante tassello dell’affermazione del “Made in Italy” in campo eno-gastronomico.
Abbiamo ascoltato opinioni sanguigne o distaccate di incuranti, possibilisti, ottimisti e pessimisti ed io dove mi piazzo? Beh mi conoscete, mi piazzo all’estremo dei pessimisti e prevedo un’emorragia di piccole birrerie che falliranno o venderanno sempre che qualcuno le voglia comprare e soprattutto un incremento sempre più rapido e pressante delle acquisizioni di aziende con appeal dotate di un marchio che si sia consolidato grazie a passione e sacrifici, due parole chiave sconosciute alle multinazionali. E poi, e qui concludo, l’ideologia dov’è finita? Sul marciapiede senza dubbio alcuno! Io sposo in pieno il credo di Veronelli che affermava: “il peggior vino del contadino è migliore del miglior vino industriale”, il che ovviamente non è vero dal punto di vista “letterale” ma che è sacrosanto dal punto di vista ideologico. Quindi invito tutti i seguaci, come me, dell’ideologia artigianale a predicare e divulgare il verbo “la peggior birra artigianale è migliore della migliore birra industriale”. Amen!
A cura di Lorenzo Dabove detto Kuaska
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Per maggiori informazioni vi invitiamo a consultare il nostro Nuovo Annuario Birrifici Artigianali, scaricabile gratuitamente
Tutti gli articoli di Kuaska:
2016 – BIRRE ARTIGIANALI: FORMAZIONE E CRESCITA PROFESSIONALE DEI MICROBIRRAI IN ITALIA
2014 – IL CRESCENTE FENOMENO DELLE “BEER FIRM”, BIRRIFICI SENZA BIRRIFICIO
2013 – DEFINIZIONE E PERCEZIONE DELLA BIRRA ARTIGIANALE IN ITALIA
2012 – FOCUS SULLA BIRRA ARTIGIANALE NEI PAESI SCANDINAVI
2012 – BIRRE ARTIGIANALI MADE IN ITALY: LO STRETTO LEGAME COL TERRITORIO
2011 – IL BOOM DELLE BIRRE BARRICATE SULL’ASSE AMERICA/ITALIA
2008 – THE THRILLING ADVENTURE OF THE AMERICAN “RENAISSANCE”
2008 – L’ESALTANTE AVVENTURA DELLA RENAISSANCE AMERICANA
2006 – BIRRA ARTIGIANALE: DIECI ANNI DOPO LA NASCITA DEL “MADE IN ITALY”
2005 – IL BOOM DELL’ HOMEBREWING IN ITALIA
2004 – LAMBIC: L’ANELLO MANCANTE TRA LA BIRRA E IL VINO
2004 – INTERVISTA CON IAIN LOE, CAMRA (CAMPAIGN FOR REAL ALE)
2002 – L’INCREDIBILE SUCCESSO DELLA BIRRA ARTIGIANALE IN ITALIA
2001 – LA DEGUSTAZIONE DELLE BIRRE