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a cura di: Dott. STEFANO BUIATTI – Docente di Tecnologia della Birra – Dipartimento di Scienze degli Alimenti – Università di Udine (Italy)

Fonte: Annuario Birre Italia 2004-05 ©Beverfood Srl – Milano

SOMMARIO: Birra artigianale o birra industriale ? – Le materie prime della birra – Detergenza e sanitizzazione impianti – Corsi di formazione

Rif. Temporale: 04/2004


Quasi un miliardo e mezzo di ettolitri consumati ogni anno, la presenza su tutti i mercati del mondo, nessuno escluso. La birra si presenta con questi numeri e queste credenziali senza dubbio di tutto rispetto. Proprio perché prodotto universale, è disponibile in una moltitudine di tipologie e stili, legati alle tradizioni, alle materie prime impiegate, alla storia, alla cultura dei diversi paesi. Essendo le birre così tante, non solo da un punto di vista quantitativo ma anche qualitativo, sono stati adottati criteri diversi per la loro classificazione e descrizione. Uno dei più diffusi prevede la loro distinzione in base alla tecnica di fermentazione che viene definita alta, bassa e spontanea. Le birre lager (bassa fermentazione) rappresentano oltre il 90% delle birre prodotte al mondo, mentre quelle a fermentazione spontanea, sia pure quasi trascurabili quantitativamente, costituiscono un prodotto molto interessante e ricchissimo da un punto di vista organolettico e qualitativo. Le birre ales (alta fermentazione), sebbene per quantità meno importanti delle lager, sono testimoni delle zone, delle tradizioni e della cultura dei paesi in cui vengono prodotte; tradizioni che spesso affondano nei secoli e nella storia anche millenaria di questo prodotto.

Attualmente un ulteriore criterio di suddivisione è rappresentato dalla presenza sul mercato di birre definite, a seconda dei casi, artigianali, crude, naturali, non filtrate, integrali, non pastorizzate per differenziarle da quelle cosiddette industriali. Se da un lato ciò ha aumentato l’offerta del mercato allargando le opportunità di scelta del consumatore dall’altro ha inevitabilmente ingenerato confusione determinando anche una contrapposizione tra tipologie di birre spesso del tutto ingiustificata.

Birra artigianale o birra industriale ?

La risposta è molto semplice: entrambe. Vorrei infatti subito sgombrare il campo dall’equivoco secondo il quale soltanto una delle due, e quale sia dipende da chi parla, è quella “buona”. Non perdo occasione di ribadire che è semplicemente inesatto e superficiale, nonché sintomatico di scarsa conoscenza, attribuire, con una sorta di fideismo manicheo, la pagella di bontà alla birra artigianale piuttosto che a quella industriale o viceversa.

Ritengo che ci siano birre buone e meno buone, siano esse artigianali o industriali; l’appartenere a una categoria piuttosto che all’altra non rappresenta una patente, né in termini positivi che negativi. Ho sempre diffidato dei fondamentalisti, anche di quelli della birra, pronti a diffondere o ancor peggio a imporre le loro verità.

Non di rado poi il confine tra birra artigianale e industriale è labile, specialmente all’estero, e quindi diventa difficile dare delle etichette. Al di là delle polemiche possiamo sicuramente affermare che, nella sua quasi totalità, il mondo della birra, sia essa artigianale o industriale, si sta adoperando affinché il prodotto si affermi sempre di più sul mercato, con una costante e crescente attenzione all’aspetto della qualità.

Dopo questa doverosa premessa ricordiamo che ciò che differenzia sostanzialmente il prodotto artigianale da quello industriale è che nel primo caso la birra viene consumata, nella generalità dei casi, non filtrata e non pastorizzata. Ciò determina delle diversità per quanto riguarda le caratteristiche organolettiche, la tecnologia di produzione e la shelf-life del prodotto.

Si ricorda inoltre che alcune birre artigianali vengono filtrate ma nessuna di queste, a quanto è dato di sapere, viene pastorizzata. La filtrazione ha una grossa influenza sul gusto poiché la presenza del lievito e delle proteine tende naturalmente a rendere più corposa la birra, come d’altra parte la rende anche meno “beverina” perché più “pesante” rispetto al prodotto filtrato. La scelta di filtrare il prodotto quindi non solo è legata alla necessità di garantirne una maggiore stabilità chimico-fisica ma anche a precise scelte di mercato per favorire il consumo.

Per quanto riguarda la pastorizzazione ricordiamo che il suo scopo è quello di assicurare la stabilità biologica nel tempo, ragion per cui la stragrande maggioranza delle birre industriali viene pastorizzata. Ciò non accade per il prodotto artigianale il cui consumo normalmente avviene entro breve tempo dalla produzione e inoltre perché sarebbe tecnologicamente privo di senso e del tutto inutile sottoporre a trattamento termico una birra non filtrata. E’ noto infatti che per essere efficace la pastorizzazione deve essere effettuata su un prodotto con una carica microbica molto bassa.

Il termine di birra cruda, spesso utilizzato per descrivere il prodotto artigianale, si riferisce quindi al fatto che la birra non ha subito alcun trattamento termico a differenza di quello industriale. E’ questo garanzia di qualità? E’ buona una birra solo perché può fregiarsi dell’aggettivo cruda? Si, ma solo se la birra è stata prodotta con materie prime di qualità, con una tecnologia adeguata e da un tecnico capace ed esperto; e non solo perché non è stata pastorizzata, questo solo chi ignora le basi della tecnologia della birra può crederlo e sostenerlo.

E questo vale per qualsiasi prodotto, artigianale o industriale, è cioè la qualità del lavoro, la professionalità e la passione dell’uomo, la corretta tecnologia e le buone materie prime a fare la qualità della birra e non il semplice appartenere ad una categoria o l’altra.

Le materie prime della birra

La scelta delle materie prime è il primo passo per garantire la produzione di una birra di qualità. Se è vero che chi ben comincia è a metà dell’opera, allora solo il mastro birraio in grado di approvvigionarsi con malti, luppoli, lieviti e acqua di ottima qualità può pensare con una certa sicurezza all’altra metà dell’opera, la birra.

Il malto

Oggi è possibile disporre di una varietà sorprendente di malti diversi a differenza di quanto accadeva nel passato, quando il mastro birraio ne aveva a disposizione solo due o tre tipi. La internazionalizzazione dei mercati ha poi reso disponibili malti prodotti anche in paesi molto lontani aumentando quindi le possibilità di scelta per il produttore di birra.

Quali sono gli strumenti di cui dispone il mastro birraio per valutare la qualità del malto? Non si può prescindere dalla conoscenza e comprensione dei fenomeni biochimici che sono intimamente connessi alla trasformazione dell’orzo in malto. Deve essere chiaro che solo da un buon orzo si potrà ottenere un buon malto e non c’è maltatore esperto che sappia fare il miracolo di trasformare orzo scadente in malto di qualità, come peraltro non c’è enologo così sapiente da essere capace di fare dell’ottimo vino da uva di scarsa qualità.

Saranno quindi le malterie a richiedere orzi che rispondano a precisi requisiti qualitativi al fine di garantire la produzione di un malto di qualità. Tornando alla domanda posta prima possiamo dire che, oltre all’esperienza che naturalmente gioca un ruolo importantissimo, è molto importante che il mastro birraio richieda al proprio fornitore le caratteristiche compositive del malto e ne sappia ovviamente interpretare i parametri.

Questi sono molti e spesso strettamente correlati tra loro a indicare, ad esempio, il grado di modificazione del seme. E’ ovvio che, oltre a ciò, il mastro birraio dovrà basarsi sui suoi sensi valutando quindi visivamente, olfattivamente e, infine, assaggiando il prodotto. Si vuole comunque sottolineare che l’orzo, e quindi di conseguenza il malto, essendo un prodotto naturale, è soggetto a una variabilità che dipende da numerosi fattori, primo dei quali quello pedoclimatico.

Non è un caso infatti che tutti i grandi stabilimenti di produzione della birra ricorrano ad acquisti presso diverse malterie per ridurre il più possibile le differenze qualitative che inevitabilmente i malti presentano e che poi ovviamente si ripercuotono sulla birra. Non è certo questo il caso delle microbirrerie e brew-pub che, a differenza del grande stabilimento, non vanno alla ricerca della standardizzazione del prodotto e quindi sono meno sensibili a differenze qualitative tra i malti. Ciò comunque non esonera il mastro birraio da una attenta valutazione di quello che sta per comprare.

Un altro aspetto importante da valutare è quello della conservazione e dello stoccaggio del malto. Se possibile esso va conservato a bassi valori di temperatura e umidità e in un ambiente chiuso. Ciò per evitare quello che inevitabilmente accade se queste condizioni non vengono rispettate: l’attacco da parte di insetti e topi. A tal proposito vorrei sfatare il mito dei topolini ghiotti di formaggio; provate a metterne un po’ accanto al malto e vedrete quale dei due viene preferito. Accade anche che ci si debba rivolgere a ditte di derattizzazione e disinfestazione, soprattutto quando il malto in sacchi viene conservato in luoghi di passaggio e quindi non chiusi.

Il luppolo

Che il luppolo svolga un ruolo fondamentale per le caratteristiche organolettiche del prodotto è cosa nota. Il suo apporto come amaricante e come aromatizzante è essenziale per ottenere un prodotto equilibrato e gradevole. Vale la pena di ricordare che se la birra venisse prodotta senza l’impiego del luppolo quello che otterremmo sarebbe una bevanda alcolica che pochi assaggiatori definirebbero birra. Senza l’amaro del luppolo infatti il sapore sarebbe dolciastro e sgradevole e inoltre presenterebbe una schiuma molto evanescente dal momento che non contiene iso-alfa-acidi, composti derivanti dal luppolo responsabili dell’amaro ma anche molto importanti per ottenere una schiuma compatta e persistente.

Non è un caso infatti che birre molto amare, e quindi molto luppolate, presentino schiume particolarmente compatte. Le informazioni che il mastro birraio può ottenere sulla qualità del luppolo sono francamente poche. Da un punto di vista compositivo raramente si va al di là della concentrazione in alfa-acidi mentre sarebbe molto utile conoscere l’anno del raccolto e anche la concentrazione in olii essenziali, cioè del mircene, beta-cariofillene, umulene e farnesene (quest’ultimo presente non in tutte le varietà).

L’anno del raccolto è importante poiché il luppolo tende più o meno rapidamente a degradarsi perdendo le sue proprietà a causa di fenomeni ossidativi. Conoscere quindi l’età del prodotto è un indicazione utile per sapere se la concentrazione di alfa-acidi indicati in etichetta corrisponda ancora a quella effettiva.

Come noto il luppolo viene impiegato nelle forme dei derivati del fiore essiccato e pressato, soprattutto come pellets. Questi, oltre ad essere più comodi (minore ingombro, più facilmente manipolabili e conservabili) rispetto al fiore, garantiscono una migliore resa. Questo aspetto è molto importante poiché, anche in condizioni ottimali, gli alfa-acidi che isomerizzano a iso-alfa-acidi non superano mai il 40%. Tale rendimento comunque è molto influenzato anche dalla tipologia dell’impianto e quindi è opportuno calcolare la resa del luppolo sul proprio sistema di produzione per ottenere delle valutazioni reali ed effettive.

Tre sono le regole fondamentali che il mastro birraio deve ricordare relativamente alla conservazione, e cioè che i nemici del luppolo sono gli stessi della birra: la luce, il tempo e la temperatura. I fenomeni degradativi sono accelerati in particolare dalle alte temperature e dalla presenza dell’aria. E’ auspicabile quindi conservare il luppolo a basse temperature (anche -18°C) e in confezioni tenute quanto possibile al riparo dall’aria e dalla luce.

L’acqua

Un tempo le birre potevano essere prodotte solo in prossimità di siti in grado di offrire acque idonee alla produzione. Prima che la tecnologia consentisse di trattare l’acqua modificandone la composizione in sali minerali la birra Pilsen, ad esempio, si produceva solo a Pilsen. Attualmente questo nome identifica uno stile birrario e non più una località (che oggi si chiama Plzen, perché nella Repubblica Ceca e non più in territorio tedesco). Ma famose erano anche la acque di Burton-on-Trent in Inghilterra, Vienna, Monaco, Dublino e molte altre. Si comprende quindi l’importanza che questo ingrediente ha nel definire le caratteristiche della birra.

Si ricorda infatti che l’acqua non solo è importante quantitativamente rappresentando oltre il 90% della birra, ma anche da un punto di vista qualitativo, poiché la sua composizione in sali minerali influenza direttamente e indirettamente (modificando il pH del mosto) i caratteri organolettici della birra. Nella generalità dei casi è preferibile utilizzare acque “dolci” (povere di sali minerali) sebbene vi siano certe tipologie di birre (tipiche Ales inglesi) che richiedono acque “dure”, ricche cioè in sali minerali, in particolare solfati. Oggi quindi, utilizzando i cosiddetti addolcitori (resine a scambio ionico) è possibile ottenere ovunque la composizione desiderata dell’acqua.

E’ opportuno ricordare che non solo l’acqua di produzione deve essere trattata ma anche quella di servizio (es. per il funzionamento dei generatori di vapore), al fine di garantire sempre la massima efficienza di rendimento termico degli impianti.

Il lievito

Senza nulla togliere al ruolo del malto, luppolo e acqua, ritengo che quello del lievito sia ancor più importante per la qualità finale della birra. Il successo di una birra dipende moltissimo da esso e non solo perché è il microrganismo deputato alla trasformazione degli zuccheri in alcol, ma anche perché è coinvolto nella formazione di moltissimi altri composti secondari della fermentazione importantissimi per il profilo aromatico del prodotto (esteri, alcoli superiori, composti solforati, acidi organici, aldeidi e chetoni).

Partire da un lievito idoneo ma soprattutto sano, vitale e vigoroso è presupposto imprescindibile, condizione sine qua non per ottenere un prodotto di qualità. Nonostante ciò mi corre l’obbligo di sottolineare una situazione che credo sia abbastanza diffusa e cioè che spesso al lievito non viene data abbastanza attenzione, sia in termini di approvvigionamento che di conservazione. La differenza tra birra industriale e artigianale non sta solo nel fatto che una è filtrata e pastorizzata e l’altra no, ma dipende moltissimo \anche dal lievito. Se la grande industria è dotata di canali di approvvigionamento del lievito collaudati e standardizzati e che in genere fanno riferimento alla casa madre e ai propagatori, per il piccolo produttore l’approvvigionamento, oltre ad essere più difficile, è spesso più casuale e frutto di una scelta non sempre ben ponderata per problemi anche oggettivi.

Ritengo fondamentale che i mastri birrai siano sensibilizzati su questo aspetto; per tutti l’obiettivo è produrre una buona birra ma ciò sarà possibile solo con un buon lievito. Che cosa contraddistingue un buon lievito dunque da uno “cattivo”? La prima cosa che deve essere controllata è la sua purezza e quindi verificare se vi siano eventuali contaminazioni (da batteri o altri lieviti) come purtroppo spesso accade. Ricorrere quindi periodicamente a controlli microbiologici è pratica fondamentale per monitorare la situazione e tenerla sotto controllo. Mai come per le contaminazioni in birreria vale l’asserzione che prevenire è meglio di curare. Un lievito contaminato inevitabilmente porterà a fermentazioni deviate e alla produzione di composti responsabili di off-flavours nella birra.

Non si deve dimenticare che il lievito è un microrganismo, un essere vivente quindi, molto delicato e soggetto a situazioni di stress che ne pregiudicano una normale attività metabolica. Un secondo aspetto, è quello della corretta conduzione del processo fermentativo, e con ciò mi riferisco soprattutto al controllo della temperatura, sia in fase di fermentazione primaria che secondaria, quando la temperatura viene abbassata. Un terzo aspetto è quello della scelta del ceppo idoneo per lo stile birrario che si vuole produrre; non esiste il lievito “factotum”, adatto a tutte le birre.

Questo porta con sé un’altra problematica, cioè il rischio della contaminazione di un ceppo con l’altro. Analisi condotte presso il mio Dipartimento hanno rivelato, ad esempio, non solo contaminazioni da batteri lattici, ma anche la sovrapposizione in fermentazione di ceppi diversi a tutto scapito della qualità del prodotto. Un quarto elemento da considerare è quello del riutilizzo del lievito. E’ noto che l’industria birraria è l’unica industria fermentativa che contempla la possibilità di riutilizzare lo stesso lievito per una o più fermentazioni successive. Ciò è pratica consolidata e normale per le grandi industrie, lo è meno tra i piccoli produttori. Se non si ha la certezza di garantire una corretta conservazione del lievito tra un inoculo e l’altro ritengo sia preferibile utilizzare ogni volta lievito nuovo.

Il lievito raccolto, se non trasferito direttamente ad un altro serbatoio di fermentazione, deve essere conservato per il minor tempo possibile, al freddo e in assenza di aria, cioè di ossigeno. Per ovvi motivi questa ultima condizione è la più difficile da realizzare, ma un buon risultato lo si può ottenere mantenendo il lievito immerso in acqua fredda, ovviamente sterile. La solubilità dell’ossigeno in acqua infatti è molto bassa (circa 8-10 mg/L) e questo preserva il lievito da un metabolismo di tipo aerobico che lo porterebbe rapidamente ad esaurire le sue riserve di glicogeno riducendone la forza e il vigore fermentativo. Grande cura e attenzione, quindi, deve essere rivolta a questo importantissimo microrganismo, la non consapevolezza di ciò può vanificare il duro lavoro del mastro birraio con esiti esiziali per la birra.

Detergenza e sanitizzazione impianti

Voglio subito sottolineare un concetto che reputo fondamentale, e cioè che la buona birra può nascere solo dalla consapevolezza di quanto importante sia la pulizia dei locali di produzione. Ho volutamente scritto locali e non impianti perché il concetto di igiene deve essere il più esteso possibile comprendere tutte le aree attigue e a contatto con le attrezzature di produzione, nonché gli operatori che sono a chiamati a lavorare in quel locale.

Nel paragrafo precedente ho enfatizzato l’importanza della purezza e conservazione del lievito; ebbene, è impensabile raggiungere questo obiettivo in assenza di un preciso, razionale e coordinato piano di pulizia. Pavimenti e pareti debbono essere tenuti sempre puliti e detersi al termine di ogni ciclo di lavorazione. Le attrezzature devono essere sempre sottoposte a un ciclo di lavaggio con l’apposito CIP quando si prevede di non riutilizzare l’impianto per alcuni giorni. Si procede normalmente con un ciclo di lavaggio alcalino seguito da risciacquo e poi da un ciclo acido che ha lo scopo anche di neutralizzare l’eventuale soda residua che, come noto, è piuttosto difficile da risciacquare. Tale aspetto è importante perché ci ricorda che è assolutamente da evitare il lavaggio dei serbatoi di fermentazione con prodotti a base di idrossido di sodio (soda caustica) prima che questi siano stati completamente sfiatati dalla anidride carbonica residua. Un eventuale contatto del gas ancora presente con la soda causerebbe infatti una implosione del serbatoio che tenderebbe ad accartocciarsi con un effetto tipo “schiacciamento lattina”.

Può essere talvolta opportuno effettuare un veloce risciacquo dell’impianto con acqua anche il giorno stesso della cotta prima di iniziare a lavorare se il ciclo completo di detergenza era stato effettuato alcuni giorni prima. Particolare attenzione deve essere posta per alcune attrezzature che presentano alcuni punti critici relativamente all’aspetto igienico-sanitario. Il mulino, ad esempio, dovrebbe essere immediatamente pulito e privato delle parti di semi e farina che residuano all’interno della camera di schiacciamento. Diversamente si troveranno entro breve, in particolare durante le stagioni calde, numerose larve di insetti. E’ importante quindi che il mulino sia ispezionabile in tutte le sue parti, in particolare in prossimità degli organi di schiacciamento per verificare che non vi siano angoli morti e interstizi in cui possono residuare i cereali che devono essere eliminati per aspirazione piuttosto che con aria compressa per evitare la dispersione nell’ambiente dei residui stessi.

Molto importante è anche la pulizia dello scambiatore di calore che, per la sua geometria costruttiva, se non adeguatamente deterso e sanitizzato può diventare fonte di contaminazioni e infezioni del mosto. Ai fini della detersione molto importante è anche il lay-out dell’impianto ed in particolare il sistema di collegamento tra i vari serbatoi. Ovviamente le tubazioni debbono essere disposte in modo tale da razionalizzare le operazioni di processo aumentando l’efficienza del sistema, ma nel contempo favorire l’attuazione di una corretta pulizia evitando angoli morti e ristagni di liquidi che potrebbero diventare focolai di infezioni.

Analogamente nei brew-pub il sistema di spillatura deve essere adeguatamente sanitizzato evitando nel modo più assoluto di lasciare della birra nelle tubazioni a fine giornata. Nel giro di poche settimane o addirittura giorni il sistema di spillatura può diventare fonte di contaminazione, per cui tutta la cura messa dal mastro birraio in birreria potrebbe essere vanificata da una scarsa attenzione in fase di mescita nel locale annesso.

Alla luce di queste considerazioni si comprende quanto sia fondato affermare che la birra si comincia facendo le pulizie e non macinando il malto.

Corsi di formazione

Un capitolo importante è quello della formazione e informazione delle persone coinvolte a vari livelli nella filiera di processo della birra. Da alcuni anni è possibile frequentare corsi finalizzati a questo scopo organizzati in particolare dall’Unionbirrai, organizzazione che fin dalla sua fondazione si è prodigata per la diffusione e la promozione della cultura della birra.

Relativamente al mondo accademico ricordo i corsi organizzati dal Dipartimento di Scienze degli Alimenti dell’Università di Udine e dedicati ai futuri e potenziali imprenditori della birra. Le formule dei corsi, come peraltro quelli dell’Unionbirrai, sono strutturate in modo tale da consentire una full immersion nelle tematiche tecnico-gestionali, consentendo ai corsisti di partecipare anche in prima persona e dal vivo ad una cotta di produzione, spaziando quindi dall’ ambito teorico a quello pratico.

I corsi dell’Università di Udine sono organizzati in collaborazione con l’Unionbirrai, con il Consorzio Friuli Innovazione e l’Azienda Agraria Sperimentale dell’Università stessa. Questi corsi sono riconosciuti e si svolgono con il patrocinio della locale Camera di Commercio e al termine degli stessi viene rilasciato un attestato di partecipazione.

Ciò non di meno credo sia importante sottolineare l’importante ruolo che potrebbe essere svolto da altri potenziali partners nell’organizzazione di questi corsi. Penso in particolare ai fornitori delle materie prime, degli impianti di produzione e di servizi che potrebbero dare un contributo fondamentale, grazie alle loro competenze di settore.

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