B – IL PERIODO FASCISTA
Lo sviluppo delle fabbriche di birra italiane nel periodo fascista incontra, a prescindere dalla grave crisi del 1929, due grosse difficoltà:
– L’importanza che la produzione vinicola riveste per tutta l’economia italiana, Il che induce il Governo a concedere maggiori vantaggi sia per la produzione che per il commercio del vino con conseguenti difficoltà per i produttori di birra.
– La necessità di importare dall’estero il luppolo ed il malto. Il prodotto birra viene così vissuto dal Governo come non italiano al 100%. E ben si sa come a quel tempo fossero privilegiati i prodotti nazionali (un famoso manifesto recitava “Non togliete il pane ai figli dei nostri lavoratori acquistate prodotti italiani”).
Il Governo si trova però a dover fronteggiare l’importazione, non gradita, di birra dall’estero in particolar modo dalla Germania. Ciò gioca a favore delle fabbriche di birra italiane. Da un lato il Governo impone un nuovo dazio doganale di 35 lire oro per ettolitro, dall’altro inizia a guardare con occhio più benevolo alla produzione di birra nazionale.
I giornali di partito pubblicano articoli in favore della campagna birraria. Aumenta la produzione nazionale del malto (che arriverà al 20% del fabbisogno totale) grazie anche all’intuito di un grande birraio, Pietro Wuhrer. Fervono esperimenti per la produzione del luppolo in Italia. Nell’estate 1929/1930 le fabbriche di birra si impegnano in una campagna pubblicitaria, che copre tutto il territorio nazionale, investendo circa 5 milioni di lire. Questa viene però vissuta male dai viticultori fino a portare a scontri fra le due Federazioni.
I risultati non sono però soddisfacenti. Il consumo di birra per abitante arriva a circa 3 litri contro i 90 del vino. La birra continua ad essere concepita come una bibita estiva e tutti gli sforzi per destagionalizzarla risultano infruttuosi.
Si cercano allora sbocchi in paesi caldi. Il Governo stimola i produttori ad esportare in Africa. Non avendo l’industria italiana esperienze per la vendita di birra nei paesi tropicali, l’Istituto Nazionale per l’esportazione pubblica uno studio circa l’esportazione birraria tedesca verso le regioni africane. Esso riguarda: sistemi di fabbricazione per una miglior conservazione del prodotto, mezzi e possibilità di esportazione, zone d’influenza delle fabbriche tedesche, giungendo alla conclusione che in certe parti dell’Africa toccati dai bastimenti della ‘Libera Triestina’ si potrebbe organizzare l’esportazione della birra italiana.
Con particolare attenzione viene esaminata l’esportazione verso l’Africa Portoghese e specialmente in Mozambico. A parere dell’Istituto per l’esportazione i 5.632 ettoilitri di birra che questo paese importa dall’Olanda e dalla Germania non coprono interamente il fabbisogno della colonia. Parecchie birrerie si trovano impegnate in questo programma: Dreher ( la prima birreria a risolvere il problema della conservazione del prodotto ai climi tropicali), Peroni, Paszkowski, Livorno, cui seguiranno altre.
Dopo la guerra d’Etiopia le esportazioni si concentrano verso le colonie e i territori africani di dominio italiano. Si esporta soprattutto in Libia, in Etiopia, in Somalia, in Albania a Rodi. Nel 1936 nasce la Compagnia imperiale per la birra in Etiopia. Una società per azioni con capitale di 500.000 lire. Nel 1937 le principali birrerie esportatrici danno vita alla Società anonima Birra Africa orientale anch’essa con capitale di 500.000 lire. Le ditte firmatarie sono 15. Nel 1939, superati gli elementi di discordia venuti alla luce alla metà degli anni 30 e rinnovato il patto di rispetto della clientela, si disciplina l’esportazione tramite il Consorzio esportatori birra in Africa orientale. A seguito di questi impulsi le esportazioni nel decennio 1930/1939 passano da 18.000 ettolitri a 160.000. Il dato è ancora più significativo se confrontato con quello nazionale che, a seguito della recessione del 1929, passa da 902.000 ettolitri a 708.000 dopo aver toccato un minimo di 290.000 ettolitri nel 1934/35. Verranno anche aperte fabbriche come la Birreria OEA a Tripoli, la Cirene a Bengasi, la Korca in Albania ma, queste, con modesti risultati.