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di Riccardo Staglianò
prefazione al libro
STARBUCKS Il buono e il cattivo del caffè
Editore EGEA www.egeaonline.it
Pubblicata anche su Coffitalia 2010-11
per gentile concessione dell’editore Egea.

SOMMARIO: L’America è un motore che va a petrolio e caffè. Il primo alimenta le macchine, il secondo gli uomini. È qui che va a finire un terzo dei chicchi mondiali e vengono scolate undici miliardi di tazze all’anno. Nazione fondata sulla prestazione – dai traslocatori del Bronx ai banchieri di Wall Street – ne ha fatto da sempre la sua bevanda di elezione, la droga legale, il doping presentabile. Per secoli è stata considerata solo la sua funzione: benzina che dava la carica a un popolo di workaholic. Poi, alla fine degli anni Ottanta, è arrivato Starbucks e ne ha svelato i simboli. Ci ha costruito intorno una religione e ne ha officiato la liturgia.

Riferimento Temporale: Aprile 2010

Annuario Caffè Italia Coffitalia

Se credete che sia una ricostruzione sovreccitata, magari figlia di qualche moka di troppo, considerate il primo miracolo. All’epoca una tazza di caffè nero filtrato costava 50 centesimi da Anchorage, Alaska, a Zenda,Wisconsin. Nella neonata catena riuscivano a farsela pagare un dollaro e sessanta. Che è come se per un espresso qualcuno volesse spillarvi, invece di un euro, tre. E se non vi basta la moltiplicazione dei pani e dei prezzi, soffermatevi sul secondo mistero. Nel 1991, tre anni dopo aver acquisito la sconosciuta torrefazione di Seattle, al giovane e ambizioso ex venditore di casalinghi Howard Schultz viene un’altra idea delle sue. Una caffetteria nel centro di Vancouver sta andando incredibilmente bene. La gente fa la fila per gustare quella miscela parente oltre il sesto grado del jus des chaussettes dei chioschi cittadini. E Schultz non sopporta di perdere clienti per mancanza di sedie e tavolini. «Perché non ne apriamo un’altra sul lato opposto della strada» propone allora al suo agente immobiliare. Nello stabile dove prima c’era… un ristorante. L’immobiliarista non si capacita: un posto tanto grande e tanto vicino, erano due follie in un colpo solo. Ma il manager ha la meglio e ha anche ragione. Pur a quindici metri di distanza le clientele non si sovrappongono. Bastava riconoscere le differenze e valorizzare la passione comune: una smisurata voglia di buttar giù un buon liquido caldo ed energizzante. Inizia di lì, con la strana coppia ai civici 1099 e 1100 di Robson Street, l’irresistibile ascesa dell’azienda che ha colonizzato il mondo e reinventato l’esperienza di bere il caffè. Il libro di Taylor Clark che avete tra le mani racconta quest’epopea. La corsa all’altro oro nero. E i colpi bassi che, nella mischia, non sono mancati.

L’America è anche una nazione fondata sulla varietà dell’offerta. Dovrebbero sancirlo anche nella Dichiarazione di Indipendenza, accanto al diritto di «cercare la felicità», che poi sono due cose – qui come a nessun’altra latitudine – intimamente legate. Al supermercato noi abbiamo tre tipi di latte, loro una dozzina. Al bar qualche variazione su espresso e cappuccino, da Starbucks 55 mila. Sì, le hanno contate. C’è una signora a Seattle che ogni mattina, invariabilmente scegliendo l’ora di punta, chiede un «decaffeinato singolo da sedici once con extra vaniglia, bollente e con panna macchiata al caramello ». La madre delle perversioni è sempre incinta e al confronto quei clienti che da noi pretendono un orzo in tazza grande con un goccio di latte freddo sembrano gente senza fantasia. L’idea della personalizzazione è presa così sul serio che il sistema di gestione degli ordini, con il loro feroce taylorismo, prevede che gli inservienti scrivano con un pennarello le specifiche sulla tazza assieme al vostro nome prima di passare il tutto in produzione. L’attesa, che non dovrebbe mai superare i tre minuti nei desiderata di mister Schultz, finisce quando ti chiamano.

Sì, stanno dicendo proprio a te. Non sei un numero ma un essere umano. Siamo tra amici. Fatti avanti e sorridi. La Filiera del caffè espresso - La degustazione del Caffè di Franco e Mauro Bazzara - Planet CoffeeNeppure l’arredamento è taglia unica. Spiega Clark: «C’è il “classico”, di stile europeo, pieno di legno. Il “di moda”, patinato e spigoloso, più cosmopolita. E “Origins” allegro e colorato, che avrebbe dovuto ricordare un mercato mediorientale». Ognuno può scegliere, prima ancora del blend, l’atmosfera che gli assomiglia di più. Perché la catena ha rivoluzionato, oltre al bere, anche la socialità degli statunitensi. Le sue caffetterie hanno riempito un vuoto nell’America degli spazi pubblici espropriati dai centri commerciali. Sono diventati il «terzo posto» per antonomasia, quello altro da casa e lavoro nelle tassonomie degli antropologi, «dove la gente vuole stare da sola ma ha bisogno di compagnia per farlo» com’è stato teorizzato. È questo il vero ingrediente speciale, da qui si sprigiona la magia. Che se non giustifica, almeno inizia a spiegare alcuni record. Tipo che in media un cliente ci torna diciotto volte al mese e un negozio realizza più di un milione di dollari di fatturato all’anno . Mischiate il tutto e comincerete a meravigliarvi meno dell’espansione più rapida (e meno cruenta) dai tempi di Gengis Khan. Quella che ha fatto contare sul pallottoliere aziendale 16 mila negozi nel mondo, con un ritmo di crescita a lungo costante sui sei nuovi al giorno. Sono dappertutto, da Xi’an, antica capitale cinese dove una tazza standard costa come un pranzo tradizionale per quattro persone, alla base Usa di Guantanamo dove i militari vi si rinfrancavano tra un turno, un interrogatorio e un waterboarding.

Nessuno ha descritto tanto bene la vastità del suo regno quanto gli altri campioni della globalizzazione culturale made in Usa, i Simpsons. È nella puntata in cui Bart trova finalmente un negozio di piercing dentro un mall popolato ormai solo di caffetteriecon il logo della sirenetta e il gestore l’avverte di non perdere tempo: «Meglio sbrigarsi perché tra dieci minuti compreranno anche questo posto». Nonostante i problemi recenti, con la dieta dimagrante del 5 per cento dei negozi chiusi negli Stati Uniti perché non rendevano abbastanza, l’obiettivo dei 40 mila punti vendita nel mondo non è stato ancora accantonato. A novembre, per dire, sul planisfero nel quartier generale hanno piantato un’altra bandierina in una terra sin qui vergine: la Bulgaria. Con lo sviluppo del turismo spaziale non sorprenderebbe una prossima inaugurazione sulla Luna. L’America è un paese ossessionato dalle ossessioni. Quelle imprenditoriali, soprattutto. Celebrate in libri di successo, come l’autobiografia del fondatore di Intel Andrew Grove opportunamente intitolata Solo i paranoici sopravvivono.

In film epici come The Aviator, su Howard Hughes che voleva rivoluzionare la maniera di volare. E in una pubblicistica sconfinata. Howard SchultzLa figura di Howard Schultz (cfr foto), nato nelle case popolari di Brooklyn, si inserisce perfettamente nel filone. L’epifania che cambierà la sua esistenza la incontra a Milano nel 1983 dove è in visita a una fiera di oggettistica per la casa. Ai suoi occhi ciò che rende bella la vita dei milanesi non è tanto la moda o la Scala, sollazzi per pochi, ma gli immancabili caffè, conforto per molti. Millecinquecento, a quel censimento, tra i quali il milione e trecentomila cittadini potevano scegliere liberamente (a Seattle, sul podio statunitense, ce ne sono solo seicentocinquanta). Su quei banconi, riassume l’autore, «preferirebbero porgere al cliente una vecchia scarpa puzzolente che servirgli il caffè in un bicchiere di carta da asporto». E la bevuta è solo una porzione minima di quell’esperienza. Sono luoghi di incontro. La gente ci torna più volte al giorno. Chiacchiera, ride, si ripara. «Se potevamo ricreare in America l’autenticità della caffetteria italiana essa avrebbe potuto colpire altri americani come aveva colpito me» scriverà più tardi Schultz. Diventerà il suo pensiero dominante. Studiando i bilanci della società per cui allora lavorava scopre un’anomalia: una minuscola azienda di Seattle di nome Starbucks Coffee, Tea and Spices ordinava più esemplari di un certo modello di caffettiera a filtro di quanto non facesse Macy’s, il grande magazzino newyorchese.

Qualcosa di strano sta bollendo da quelle parti. Decide di seguire il profumo. Prende l’aereo e conosce quella banda di ex hippie che gestivano la baracca. La rievocazione del primo sorso confina col ridicolo, se non fosse che l’uomo è un pubblicitario nato: «Il vapore e l’aroma sembrarono avvolgere interamente il mio viso. Non si poteva neanche concepire di aggiungere latte o zucchero. Ne presi un piccolo, incerto sorso. Wow! La testa si rovesciò all’indietro e gli occhi si spalancarono. Bastò a farmi capire che era più forte di qualsiasi altro avessi mai assaggiato». Dopo quell’orgasmo all’arabica non volle più saperne d’altro. Convinse i proprietari a prenderlo come socio e iniziò la reinvenzione del marchio. Il tempismo era perfetto. I primi anni ’90 coincidono con il boom economico. Tra il 1980 e il 1999 il reddito medio passa da 15 mila a 21 mila dollari. Non gratis, però. L’economia tira, la gente lavora sempre più e dorme sempre meno. Già Maometto aveva illustrato le virtù della caffeina dicendosi capace, poi, «di disarcionare 40 uomini e possedere 40 donne». I broker irrorano le loro lunghe giornate con miscele sempre più pure. Racconta David Brooks nel suo bestseller Bobos in Paradise: «Il caffè diventa la bevanda del nostro tempo perché stimola l’ingegno mentre i superalcolici sono caduti in disgrazia dal momento che annebbiano le facoltà di giudizio». Le caffetterie, soprattutto quelle accoglienti come Starbucks, diventano la quinta scenica delle peripezie sentimentali della gioventù urbana. La location ideale per un primo appuntamento, con aspettative – e costo – minori rispetto a una cena fuori.

L’offerta cresce di mese in mese. Nasce il Frappuccino, un intruglio di spettacolare successo che mescola caffè, ghiaccio tritato e sciroppi vari. Il passaparola è così forte che non serve quasi altra pubblicità: tra il 1987 e il 1997 l’azienda non ha speso più di 10 milioni di dollari, una cifra che Coca-Cola brucia in due giorni. Un’inchiesta del Wall Street Journal rivela un primo segreto: il loro prodotto ha una concentrazione di caffeina così alta che facilita lo sviluppo di dipendenza. La scoperta non sconvolge nessuno. Anzi. Tra gli estimatori della miscela non figurava Ernesto Illy, il decano del quality coffee: «Odora come se fosse stato tostato in un incendio poi spento dai pompieri». Una stroncatura che forse dice qualcosa sul fatto che l’Italia abbia per il momento resistito all’invasione. Gli americani però ne vanno pazzi. Sempre di più. Anche gli investitori, se in dieci anni le azioni si apprezzano del 500 per cento. Quella tra successo e accuse è un’attrazione fatale, come tra cookies e latte o, da noi, cornetto e cappuccino. La seconda parte del libro ne dà conto. «Schiaccia la concorrenza dei piccoli» si è detto, e sembrava verosimile, come Barnes&Noble con le librerie indipendenti e Wal- Mart con i minimarket. Ma la verità, controintuitiva, è opposta. Ovvero che nel 1989 c’erano 585 caffetterie in America, nel 2008 oltre 24 mila. Starbucks ha creato un bisogno e inventato un’industria (per il 57 per cento ancora fatta di negozi mom and pop secondo l’ultima replica del Davide batte Golia).

Nell’universo mercantile statunitense adesso ognuno può trovare la miscela, e il prezzo, che fa al caso suo. Nei negozi che offrono anche il wifi gratis uno trova prodotti diversi, non gli stessi a prezzi inferiori come nelle altre catene. Il paradosso della prossimità non funziona solo tra punti vendita Starbucks. Se vicino a loro nascono altre caffetterie quando lì le file diventano irragionevolmente lunghe i clienti defezionano verso i locali vicini. Come dire che all’agnello conviene metter su casa vicino al lupo. EVOLUZIONE -logo-starbucks.jpgAltre bordate riguardano il fronte dei diritti dei lavoratori. I sindacati non entrano da Starbucks. Vero. Però è anche vero che il loro pacchetto retributivo è particolarmente buono e non è solo maquillage terminologico considerare i dipendenti «soci» e distribuire loro le stock options della compagnia. Che spende oltre 200 milioni di dollari l’anno – più di quel che va nei chicchi – per garantire un’assicurazione sanitaria ai suoi lavoranti. Tutte caratteristiche che spiegano il perché da loro ci sia una tale percentuale di baristi sovraqualificati, con lauree e master, e che tuttavia l’80 per cento se ne vada ogni anno. Più che posti di lavoro, porti di mare (non a caso il nome è un omaggio a un ufficiale del Pequod, la nave di Moby Dick). Oltre a quelle di rilevanza domestica ci sono anche imputazioni di ordine internazionale. La catena, sostengono gli ambientalisti, ogni volta che brevetta una nuova miscela ridurrebbe la biodiversità, privatizzando una ricchezza sin qui pubblica. Ma, argomenta l’autore, nonostante il gigantismo mediatico la compagnia compra solo il 2 per cento del caffè mondiale e non le si possono attribuire conseguenze troppo rilevanti sull’ecosistema. Per non dire che, come principale fornitore di Fair Trade Coffee, quello equo e solidale (a sua volta non immune da critiche per un’ortodossia che a volte danneggia chi vorrebbe difendere), si è comprata una cospicua dotazione di indulgenze. Inoltre contribuisce, con ingenti progetti (per genuina solidarietà o preoccupazioni d’immagine? Il risultato è lo stesso) al sostegno dell’ambiente nei paesi produttori con cui commercia.

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Le polemiche ovviamente se ne infischiano delle chiusure editoriali. Da quando il volume è stato confezionato ne sono saltate fuori innumerevoli altre. Tra le ultime quella per il colossale spreco d’acqua di cui sono colpevoli: 23 milioni di litri al giorno, nel totale dei 44 paesi dove sono presenti, abbastanza per risolvere d’un colpo solo la siccità in Namibia. La perdita ha origine da una politica del «rubinetto aperto» che impone ai dipendenti di lasciar scorrere un filo d’acqua dai rubinetti per evitare la moltiplicazione di germi nel lavandino e nelle macchine che lavorano il latte. E c’è anche chi, com’era già successo per McDonald’s con il suo BigMac Index per valutare il potere d’acquisto relativo nei vari paesi dove si può comprare, ha coniato un’ipotesi macroeconomica dandole il nome della catena. La «teoria Starbucks dell’economia internazionale», recita l’equazione suggerita da un editorialista di Newsweek, suggerisce che nei paesi dove maggiore è la concentrazione dei loro punti vendita, più gravi saranno le conseguenze della crisi finanziaria. Perché l’espansione della catena ha assecondato sia la bolla immobiliare (aprendo sempre più negozi, sempre più cari e centrali) che quella finanziaria (colonizzando soprattutto le città dove la presenza di questo settore economico era forte). La vera notizia che incolpevolmente il libro non può registrare è datata luglio 2008.

Chiuderanno, ha detto l’azienda, non cento – come era stato annunciato qualche mese prima – ma seicento negozi negli Stati Uniti. E 12 mila persone saranno licenziate di conseguenza. L’economia non va bene, la gente stringe la cinghia su tutto ed è probabile che ci penserà due volte prima di pagare 4 dollari per un caffelatte. È l’inizio della fine? Il declino dell’impero starbuckiano? Sin qui chi ha letto sfortuna nei fondi di caffè di Schultz e della sua creatura è sempre stato smentito. Magari, nell’onda lunga del downsizing, Starbuck rivelerà il terzo mistero, quello meglio tenuto. Il segreto della quarta dimensione. Quelle canoniche infatti sono tre, suggestivamente ribattezzate tall (taglia small da 12 once), grande (medium da 16) e venti (la large tautologica). Ma fuori listino si può ottenere, con la silenziosa complicità dei baristi, lo «short» da 8 once, che è pur sempre più abbondante di un nostro cappuccino, che sta nei dintorni delle cinque once. Il «corto» ha la stessa percentuale di caffè, solo meno latte e schiuma. È, con la campanilistica expertise che possiamo permetterci, più buono. Più gustoso ed equilibrato. E costa anche meno. Sembra la misura ideale anti-crisi. La Fed riduca gli interessi. Starbucks sdogani lo «short».

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