E’ di qualche giorno fa la notizia che gli scienziati sono riusciti per la prima volta a sequenziare il genoma della specie canephora, da cui deriva la varietà Robusta del caffè. Uno dei motivi per cui si sia riusciti a sequenziare questa specie e non la Coffee Arabica, considerata dai migliori esperti più pregiata, è dovuto al fatto che mentre la prima è diploide (ossia ha due copie per ciascun cromosoma), quella arabica è tetraploide (ha quatto copie del corredo cromosomico), circostanza che rende molto più complesso il sequenziamento del genoma. Questa notizia ci sollecita una curiosità; quando e perché nei caffè italiani si è fatto ricorso alla Robusta?
Per rispondere in modo esaustivo a questa domanda è utile tornare ai primi anni del Secondo Dopoguerra, quando cioè il mercato del caffè registra una vera e propria esplosione: come ho riportato nel libro “Il ritorno alla competitività dell’espresso Italiano” (Franco Angeli), fra il 1946 e il 1970 il consumo pro-capite decuplica, passando da 0,35 a 3,3 Kg. In quegli anni si sono consolidate delle specificità territoriali secondo cui man mano che si scendeva verso Sud, i consumatori tendevano a preferire caffè più “forti” e per questo nelle regioni del Sud i torrefattori realizzavano miscele con profili di tostatura più scura e utilizzavano una maggiore quantità di Robusta. Anche il caffè in tazzina veniva servito in modo diverso: dal momento che la Robusta risultava essere più amara e con una quantità doppia di caffeina rispetto all’Arabica, nelle regioni meridionali si diffuse la moda del caffè “ristretto”, cioè servito in quantità molto più concentrata (15 ml contro i 25-30 ml del Nord).
Tuttavia, l’uso nelle miscele di caffè Robusta diventò presto una prassi diffusa in tutta Italia e non solo da parte dei torrefattori del Sud. Questo perché, come sostiene il prof. Jonathan Morris, il metodo di estrazione dell’ “espresso”, in virtù della maggiore pressione dell’acqua, tende ad esaltare l’acidità e allo stesso tempo a pronunciare il profilo aromatico dei caffè; ciò fa sì che anche i caffè considerati deboli da un punto di vista aromatico, come ad esempio i caffè “naturali brasiliani”, nell’espresso garantiscono una buona qualità. Perfino i caffè Robusta nel sistema espresso hanno un risultato qualitativo migliore rispetto alle altre modalità di estrazione. Dall’altro lato, invece gli “Arabica lavati”, come i colombiani, che negli altri sistemi di estrazione vengono considerati più pregiati, nell’espresso risultano poco graditi, soprattutto al consumatore italiano, proprio per la loro eccessiva acidità. Tutto ciò ha portato il professor Morris a definire il metodo “espresso” «come un modo per rendere i caffè ordinari buoni, ma i buoni caffè ordinari».
Oltre agli aspetti aromatici e di “resa in tazza”, a favorire l’uso di Robusta e Arabica naturali, c’era anche il fattore costo; essendo essi più economici rispetto agli Arabica lavati, i torrefattori potevano risparmiare sui costi.Nei decenni ’50 e’60, i Brasiliani naturali ancora costituivano la principale base delle miscele; dai dati sulle importazioni risulta infatti che nei primi anni ’70 essi rappresentavano il 69% del totale dei caffè importati in Italia, mentre i Robusta pesavano per il 20% (si veda grafico sotto). Questo mix subì un drastico cambiamento a partire dalla metà degli anni ’70, a seguito di alcuni fattori:
a) negli anni 1976-1977 in Brasile alcune gelate distrussero gran parte dei raccolti, e ciò fece schizzare in alto i prezzi. I torrefattori italiani furono allora costretti a intensificare l’uso del Robusta per compensare la scarsa disponibilità degli Arabica naturali;
b) il prezzo al pubblico della tazzina di caffè era regolato dalle autorità locali, per cui i torrefattori erano impossibilitati a traslare interamente i maggiori costi della materia prima sul prodotto finito. Essi cercarono allora di recuperare margini di redditività spostando il mix di produzione su caffè più economici;
c) i consumatori italiani non percepirono il calo qualitativo del caffè, o quanto meno non reagirono con una contrazione dei consumi, e quindi i torrefattori si sentirono legittimati a proseguire la loro politica di impoverimento della qualità delle miscele, quando le quotazioni tornarono ai livelli normali;
d) il mercato dei bar dalla fine degli anni ’70 aveva raggiunto il livello di saturazione, per cui, a fronte dei minori margini di crescita, i torrefattori avevano iniziato ad attuare politiche competitive basate sull’arricchimento dell’offerta (attraverso macchine in comodato d’uso gratuito, finanziamenti per rinnovo locali etc.), che portò ad alzare sensibilmente i costi di acquisizione e di fidelizzazione dei clienti. Come effetto collaterale, la qualità della miscela di per sé passò in secondo piano e ciò permise ai torrefattori di recuperare marginalità attraverso un risparmio sui costi della materia prima.
Il risultato di questi fattori fu che agli inizi degli anni ’80 il mix degli approvvigionamenti era profondamente cambiato: i Robusta erano saliti al 43%, mentre i Brasiliani erano scesi al 36%. (Dati e informazioni tratti da: “Il ritorno alla competitività dell’espresso Italiano”, Franco Angeli, 2014) Alla luce di questi dati possiamo ritenere che è stato il fattore economico il vero motivo del maggior uso dei caffè Robusta nelle miscele italiane e non fattori qualitativi come alcune volte si sente sostenere da qualcuno. La logica del risparmio sui costi della materia prima, che da un certo momento storico in poi ha preso il sopravvento nelle politiche dei torrefattori, ha finito per logorare la qualità del prodotto venduto al bar, esponendo quest’ultimo alle pressanti insidie dei nuovi competitors che nel frattempo si sono affacciati, come ad esempio il vending prima ed il monoporzionato più recentemente. Il risultato di questo processo è sotto gli occhi di tutti; il calo costante e drammatico dei consumi di caffè al bar dal 2000 ad oggi ed un calo di competitività anche in campo internazionale (nonostante la crescita dell’export), come emerge in modo chiaro ed inequivocabile dagli indici analizzati nel libro citato sopra.
A cura di Maurizio Giuli
Maurizio Giuli è autore (insieme alla professoressa F. Pascucci) del volume “Il ritorno alla competitività dell’espresso italiano” (Franco Angeli, 2014) e di alcune pubblicazioni internazionali. E’ presidente dell’UCIMAC (l’associazione italiana dei costruttori macchine per caffè espresso) e dal 2002 è direttore marketing della Nuova Simonelli. Laureato in Economia e Commercio, ha conseguito il Dottorato di Ricerca (PhD) in “Economia e gestione delle imprese” ed il Master Science in “International Business” a Londra. Ha maturato esperienze come export manager ed ha insegnato “Economia aziendale” presso l’Università degli studi di Camerino. (Tweet @giulimaurizio)