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Il talento dell’empatia: Francesco Cioria, la star dei sommelier


Niente appunti e scarpe comode: soltanto mente fertile e voglia di provare emozioni nuove. Le escursioni nei ristoranti più importanti sono così, visite nei luoghi più densi di storia e tecnica, racchiuse in calici che cambiano forma e colore a ogni portata. È sempre meglio avere una guida, ancor di più avere la migliore possibile: Francesco Cioria, sommelier del San Domenico di Imola, che a inizio settimana ha ricevuto il Premio Identità di Sala nel corso dell’edizione digitale di Identità Golose: Identità on the road 2020.

San Domenico

Nemmeno trentadue anni, originario dell’avellinese ma trapiantato nell’Emilia che lo ha adottato. E come non avrebbe potuto: Francesco è un talento di quelli cristallini e sconosciuti ai più, colpevolmente, uno sherpa nella scalata del gusto e del benessere cui si affidano ospiti e professionisti. Il trionfo a Identità di Sala è solo l’ultimo in ordine di tempo, per Cioria che pur giovanissimo già era stato insignito del titolo di Miglior Sommelier d’Italia nel 2016 e del riconoscimento de l’Académie Internationale de la Gastronomie nel 2019: “Sono piccole soddisfazioni, soprattutto in un momento storico in cui abbiamo le mani legate: esserci fisicamente sarebbe stato più bello, ma tant’è. Il premio più grande resta avere il ristorante pieno e ricevere i complimenti degli ospiti, senza i quali non valiamo nulla. Gli ultimi anni sono stati prosperi, sono piccoli passi personali ma ottenuti da tutto il ristorante, che ci fanno capire di essere sulla strada giusta”.

Cioria aveva iniziato il suo percorso professionale proprio al San Domenico di Imola (due stelle Michelin da più di quarant’anni), prima di partire per fare esperienza anche all’estero, tra Inghilterra e Australia, e poi rientrare alla base, stabilmente nel 2014. Tutti tasselli di un mosaico fatto di fatica e dedizione, di rispetto per la propria figura e etica del lavoro spinta ai massimi livelli, ogni giorno nella sua routine che trasuda passione e conoscenza: “Si va al ristorante al mattino verso le 10, per gli incontri con i rappresentanti: mi occupo degli acquisti e ci sono venticinque agenti che vanno gestiti un paio di volte a settimana. Sono abbastanza schematico, ricevo solo su appuntamento. Poi si va giù in cantina per rifornire quanto venduto il giorno prima, controllando il magazzino, le giacenze”.

“Stampo la carta dei vini, come ripeto sempre, tutto quanto scritto deve essere ordinabile, non ci sono scuse, a maggior ragione in determinate realtà. Se arriva merce, la si etichetta e si mette in storage. Si mangia, si inizia il servizio del pranzo, poi riposo e torno alle 18: com’è noto, si ha un’idea di quando si attacca, ma mai di quando si finisce”. A inizio settimana Francesco procede con i prospetti per la degustazione, il wine pairing, lo schema dei vini da centellinare e quelli che necessitano di essere spinti: una sorta di mappa per il percorso attraverso cui accompagnerà sapientemente gli ospiti.

Di fatto è questo che vuol dire essere sommelier: “Mi è piaciuta molto la motivazione per il premio di Identità, basata sul discorso dell’empatia. Essere sommelier è empatia. Sono entrato al San Domenico quasi dieci anni fa, di ritorno dopo l’esperienza all’estero: entrare nelle grazie dei clienti assidui non è stato facile, a volte si fa meno fatica in un ristorante nuovo, così da non avere predecessori. Si tratta di comprendere, sentire, percepire, cercando di stupire ma senza mai invadere, e soprattutto senza mai dire di no. Ovviamente studio e viaggi sono la base”.

Un messaggio che dovrebbe diventare manifesto per le nuove generazioni di professionisti, che forse troppo spesso pensano di potersi ergere su un piedistallo inutile e controproducente: “Educazione e umiltà sono consigli che devono arrivare dalla famiglia, ma sono le fondamenta della professione. Si chiama servizio di sala per un motivo, significa essere al servizio della clientela. Che comunque deve essere a sua volta rispettosa, e questo non sempre capita. Siate sempre sorridenti, sappiate pesare il cliente, capite con chi potete scherzare o confidarvi, e con chi c’è da essere distanti, senza mai scadere nel fare i fenomeni. Non è mai bello”.

Bella è quanto mai riduttivo, invece, per descrivere la cantina da sogno del “SanDo”, uno dei diamanti della ristorazione italiana e non solo: oltre tredicimila bottiglie e duemila etichette, custodite nel sotterraneo perfettamente attrezzato, con etichette che risalgono a due secoli fa: “Dopo quasi dieci anni ancora mi emoziono quando scendo le scale. Sarò di parte o troppo emotivo, magari. E vedere che ogni giorno mettiamo un mattone per migliorarla e arricchirla, rimanendo fedeli al passato; notare gli occhi degli ospiti che brillano quando scorgono gli scaffali e le storie di ogni bottiglia, ci riempie l’anima”.

È un lavoro di studio continuo e intenso, per poter descrivere e divulgare ciascuna proposta, eppure la figura del sommelier è pressoché sempre messa in ombra da quella dello chef: “Viviamo in un’epoca in cui un cuoco può avere lo stesso peso specifico di un attore. Sono personaggi pubblici, la comunicazione attorno a loro è senz’altro maggiore e più trainante rispetto alla nostra. Siamo spesso eclissati, ma parliamoci chiaro, si va al ristorante attirati dal nome o dallo stile dello chef. Credo però che che ad alti livelli si parli di esperienza a 360 gradi, quindi i ragazzi in sala sono imprescindibili, in ristoranti importanti la professionalità del servizio si percepisce. E lo chef ne giova. Siamo ancora indietro, ma spero e credo che ci sia margine per avere più attenzione”.

Guide negli itinerari dei calici, saggi della filosofia del buon bere, e soprattutto ambasciatori di una cultura sterminata come quella del vino in Italia: essere sommelier è responsabilità, perché il mondo enoico può a volte sembrare quasi ostico, per un neofita: “Un ospite non si deve mai sentire giudicato: se non trova il passion fruit nel Sauvignon, non è un problema di nessuno. Il nostro compito è quello di trovare un vocabolario generico che sia adatto alla clientela generale. Pochi tecnicismi, alla gente non interessa che si parli di tannino setoso, ma di sensazioni ed emozioni. Ovvio che se di fronte c’è un professionista ci si comporta di conseguenza. L’ospite viene a trovarci per vivere un’esperienza, non per essere bacchettato. A chi vuole iniziare a comprendere il vino suggerirei quindi poca paura, buttatevi, degustate, fate domande. Un giovane che ci fa visita con la fidanzata, magari per un anniversario, è per me un regalo ammirevole, di passione, mi ci rivedo e mi impegno perché possano godersi al massimo la loro permanenza e la loro degustazione”.

Al netto della situazione attuale, con la pandemia che distorce qualsiasi discorso, la realtà del vino italiano rimane un patrimonio incommensurabile nello scrigno del paese. Eppure c’è ancora un enorme lavoro da fare: “Sembrerà strano, ma all’estero facciamo ancora fatica a mostrare davvero quello che valiamo. In Australia il vino italiano per eccellenza era un generico Pinot Grigio, con etichette che però qui non vediamo per nulla. Il biglietto da visita non è il migliore, ma nell’ultimo periodo la produzione qualitativa sta andando alle stelle, meno quantità con grande attenzione al contenuto”. E al contrario? “Il vino estero in Italia rispecchia un po’ la nostra filosofia, vediamo sempre l’erba del vicino più verde e io a volte sono uno di questi. I francesi vanno comunque alla grande e penso restino inarrivabili, ci sono prodotti che possono essere realizzati solo là. Noi dovremmo giocare  su questo, sull’esclusività, sui vitigni autoctoni, sulle nostre tipicità e tradizioni senza strafare e copiare gli altri. Rispettando territorio e tradizione”.

Tornando invece strettamente alla ristorazione, il momento è quello che è, non può negarsi: ma al di là di nuove tendenze dilaganti (“L’e-commerce sarà il futuro del vino e non credo sarà passeggero. La situazione attuale ha dato sostegno a questo mercato, a scapito delle piccole enoteche”), appena sarà possibile riaprire le porte le prospettive non sono affatto grigie: “Per noi il distanziamento era una caratteristica standard come in molti altri stellati, le limitazioni dei vari decreti non ci hanno fatto perdere alcun coperto. Chi ha fatto qualità e in passato ha lavorato bene, supererà il momento. Bar e ristorazione veloce soffriranno, è inevitabile, così come i ristoranti aperti solo alla sera. Bisogna prendere atto delle circostanze, rimboccarsi le maniche. Se avessero lasciato i ristoranti aperti a pranzo avremmo continuato ad avere un ottimo riscontro, anche con clienti abituati a venire di sera, ovviamente con maggiore affluenza nel weekend. Quando tornerà la normalità avremo imparato la lezione e forse l’ospite ne gioverà”.

Ogni scelta è quindi un passo in più per permettere ad altri di vivere momenti indelebili, senza che possano rendersi conto dello studio e della abnegazione che servono per essere trai migliori. Ma un sommelier così dotato e già esperto, che ne avrà assaggiate all’infinito, ce l’ha un’etichetta preferita? “La Tâche Romanèe Conti e il Brunello 1955 Biondi Santi. Ce ne sarebbero centinaia, ma questi sono quelli che mi hanno emozionato di più e ricordo ogni volta con passione”. E quanta passione ci mette, Francesco, per accompagnare i suoi ospiti a scoprire le bellezze del vino.

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