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Pochi altri ambienti hanno il potere di intrecciare vite e storie come quello del bar. Sempre gli stessi volti quando ci sono i regulars, gli incontri di una notte per chi è in città solo un paio di giorni, le amicizie casuali di chi è da solo e si ritrova a parlare fino a notte fonda. A maggior ragione se il bar è quello di un albergo di lusso, di quelli che ospitano celebrità e famiglie reali, sfolgoranti all’apparenza ma spesso con segreti da nascondere. È in questi contesti che sono nati alcuni trai drink più celebri della storia.

ALGONQUIN – Manhattan, New York City, New York. Agli albori dei ruggenti anni venti, l’Algonquin Hotel e il suo stile liberty divennero luogo di ritrovo per quella che verrà poi ricordata come la Tavola Rotonda dell’Algonquin: un circolo di intellettuali che annoverava tra gli altri la leggendaria giornalista Dorothy Parker e il drammaturgo Robert E. Sherwood. I nostri, tra le menti più brillanti e caustiche della Grande Mela, si riunivano quotidianamente in quella che oggi è conosciuta come Rose Room: pranzavano, giocavano a sciarada, composero anche una commedia intitolata No Sirree!, di discreto successo. Ovviamente bevevano. Probabilmente Martini, data la caratura dei personaggi, fatto sta che tra le varie creazioni dell’albergo si registra l’eponimo assoluto: una specie di rivisitazione estrema del Boulevardier, fatta con rye whisky, vermouth e succo d’ananas. Erano anni di Proibizionismo, vanno compresi.

 

BLUE HAWAII – E insomma il buon Harry Yee lo scorso settembre ha compiuto 100 anni. Una figura che va oltre la leggenda nel mondo dell’ospitalità e del bartending: è grazie a lui e a un paio di compari come Victor Jules Bergeron e Ernest Gantt che le Hawaii si sono imposte nel tempo come meta di turismo selvaggio prima, e oasi di pace e pensione poi. Fu lui a coltivare per primo l’idea dei tiki cocktails, delle ragazze con l’hula hoop e le collanine di fiori. Oltre sessant’anni trascorsi dietro al bancone, principalmente all’Hawaiian Village Hotel, oggi Hilton Hawaiian Village Waikiki Beach Resort, il più grande gioiello della catena del paparino di Paris; astemio per buona parte della sua carriera, chiedeva direttamente ai suoi clienti un responso sulle sue creazioni e difficilmente li deludeva. Nel ’57 gli si avvicinò un rappresentante olandese della distilleria Bols, che gli chiese un drink a base del loro prodotto di punta, il Blue (ovviamente) Curaçao. A un mixologist di oggi scoppierebbe un embolo, Harry non alzò un sopracciglio: aggiunse vodka (sempre sia lodata), rum bianco, una secchiata di succo d’ananas, del sour mix. E soprattutto un ombrellino.

 

HANKY-PANKY – Orgoglio italiano in un luogo sacro per il bere miscelato. Il Savoy Hotel di Londra, unica e vera Mecca per chiunque abbia assaggiato il mondo della mixology, da consumatore o addetto ai lavori: nel 1930 lo stesso albergo pubblicò The Savoy Cocktail Book, un mattone di 750 cocktail creato da Harry Craddock. Gli head barmen che si sono susseguiti negli anni hanno lasciato impronte indelebili nella storia dei drink: lo Speedbird di Harry Viccars nel ’76, appositamente creato per il primo volo commerciale del Concorde; il Moonwalk di Joe Gilmore, per celebrare l’allunaggio di Neil Armstrong; il Wedding Bells di Reginald Johnson per festeggiare il matrimonio tra l’allora Principessa Elisabetta e il Principe Filippo. Ma qui parliamo di un’epoca ancora precedente, pionieristica quasi visto il personaggio coinvolto: Ada Coleman, l’unica donna mai stata a capo del bancone del Savoy. Nel 1925 risolse i problemi di sir Charles Hawtrey, attore, regista e commediografo, che provato dai suoi ritmi di lavoro le chiedeva continuamente qualcosa con a bit of punch in it, un po’ di spinta per tenersi su. Coley, come era affettuosamente chiamata Ada, si scervellò e ricorse al Belpaese: gin, vermouth italiano e Fernet Branca. Il commento di Hawtrey fu il battesimo definitivo: “Wow, questo è davvero Hanky Panky! (magico, sorprendente)“. Ed Hanky Panky è stato da allora.

 

HOTEL NACIONAL – C’erano un Presidente degli Stati Uniti, Marlon Brando e i peggiori mafiosi del mondo. Non tutti insieme, e non tutti nella stessa barzelletta. L’Hotel Nacional de Cuba aprì nel 1930: gioiello assoluto per esposizione sull’oceano, la pianta a doppia croce greca e il colonnato in Art Deco. Ora sarà per l’aria gradevole di Vedado, il quartiere del business de L’Havana dove l’albergo si staglia, sarà per i sigari o per le auto d’epoca: l’hotel divenne da subito tappa fissa, quando non addirittura residenza per i personaggi più influenti del mondo, lucente o oscuro che fosse. Nel ’46 ospitò la famigerata Conferenza de l’Havana, summit delle famiglia mafiose statunitensi poi ritratto nel secondo film de Il Padrino: la lista degli invitati declamava Lucky Luciano, Santo Trafficante, Albert Anastasia e qualche altro angioletto. Frank Sinatra cantò per loro (davvero) e tornò al Nacional per scopi meno loschi; prima e dopo di lui Rita Hayworth e Marlon Brando, Ernest Hemingway (ovvio, è Cuba), Jean-Paul Sartre e centinaia di altre anime eccelse. Dal 1998 l’albergo è patrimonio UNESCO, grazie anche alla presenza degli ultimi cannoni della batteria di Santa Clara (XIX secolo) sulla collina adiacente, mentre il barman Henry P. Taylor ha consegnato alla storia il drink dedicato al palazzo: rum (ma no?), succo di lime, succo di ananas e un goccio di brandy all’albicocca. Una proposta che non si può rifiutare.

 

QUEEN’S PARK SWIZZLE – Era uno dei più magnifici di tutti, quando ancora non era iniziato l’assalto dei resort tutto incluso e delle crociere extra lusso ed extra spreco. Il Queen’s Park Hotel di Port of Spain, a Trinidad: sontuoso, elegante, ammaliante. Una stella nel centro di un quartiere andato poi in degrado: oggi l’albergo non esiste più, gli è sopravvissuto il drink a cui aveva dato i natali nel 1920. “L’anestetico più delizioso del mondo”, lo definì Victor Jules Bergeron (sì, l’hawaiano, quello di prima): rum invecchiato, succo di lime, sciroppo di zucchero, menta e l’aggiunta del prodotto trinidadiano per eccellenza, il bitter di Angostura. Al Queen’s Park lo servivano con una cannuccia in bambù. Potete commuovervi.

 

ROB ROY – Millequattrocentotredici camere (volutamente scritto per esteso), tre ristoranti; quarantasette piani slanciati su centonovantuno metri, tanti da renderlo l’albergo più alto del mondo dal 1931 al 1963 prima del completamento dell’Hotel Ukraina di Mosca. Metteteci dentro la Conferenza per la Pace Mondiale del ’49, il Ballo Annuale per curare gli interessi Franco-Americani; i ripetuti soggiorni del Dalai Lama, il Presidente Kissinger che fa rimuovere pezzi di antiquariato da milioni di dollari e li fa rimpiazzare con trentasei scrivanie per il suo staff nella sua suite. Fidel Castro che entra con una decina di polli vivi e chiede che siano uccisi davanti a lui, salvo venire clamorosamente rimbalzato; il Ballo delle Debuttanti. Una robina da niente, davvero, e ci sarebbero un buon centinaio di altri aneddoti: è il Waldorf Astoria, nel cuore di Park Avenue, Manhattan, New York. La collocazione originaria, dove aprì nel 1893, era sul suolo sul quale oggi si erge un altro palazzotto da nulla, l’Empire State Building: pochi anni dopo l’inaugurazione dell’hotel, un anonimo bartender creò il Rob Roy, in occasione della prima dell’omonima operetta dedicata al fuorilegge scozzese Rob Roy McGregor. Per deformazione territoriale è composto da whisky (RIGOROSAMENTE SCOTCH WHISKY), vermouth dolce e bitter di Angostura. Su richiesta può essere servito in versione dry. PEr concludere: le fondamenta del Waldorf Astoria sono attraversate dal Track 61, un binario segreto di cui si serviva Roosevelt durante la Seconda Guerra Mondiale, e sul quale quel furbone di Andy Warhol tenne una mostra nel ’65. Ma niente di impegnativo, sul serio.

Rob Roy (foto di Lara Ferroni)

SINGAPORE SLING – Una storia romantica ma davvero. Nel senso di altri tempi, niente sbaciucchiamenti. Un giovinastro cinese,  Ngiam Tong Boon, lavora nel 1915 al bar di un imponente albergo, la cui ubicazione non verrà segnalata perché vi riteniamo perspicaci. Crea un drink, in realtà una rivisitazione del classico sling, che ha radici secolari: una bevanda nordamericana a base di alcool e acqua dolcificata. Il cocktail piace, spopola, impazza, ma c’è un trascurabilissimo dettaglio: Ngiam non solo è cinese, quindi incapace di parlare l’inglese dei coloni (e vi stiamo aiutando, forza). Viene da Hainan, la più piccola provincia della sua nazione; sa scrivere solo nel suo dialetto, quindi non riesce a mettere su carta la ricetta in modo comprensibili per chiunque altro. Ci penseranno i baristi successivi a tramandare ricordi e sensazioni, fino a quella che può essere ritenuta la ricetta standard odierna e forse per questo motivo piuttosto pittoresca: gin, Cointreau, Cherry, Benedictine, Grenadine, succo di ananas, succo di lime, Angostura. Il teatro del dramma, in ogni caso, fu il Raffles Hotel, aperto nel 1887 da albergatori armeni e attualmente in fase di restauro con proiezioni di riapertura a metà 2019: il Long Bar dove viene ancora servita la presunta ricetta originale è invece sempre attivo in una location separata.

 

fonte: imbibemagazine.com

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