Il quando e il dove ve li diremo poi, ma cinque di noi hanno fatto un’analisi sensoriale dei caffè al bar per una televisione straniera. Non siamo certamente nuovi in questo genere di missioni: le abbiamo fatte in Italia per Altroconsumo sui bar storici di Milano e Roma come in Giappone per la più importante rivista del settore della Gdo (in Giappone non manca quasi mai la possibilità di prendersi un caffè al supermercato). Non agiamo mai come giudici monocratici, siamo sempre in gruppo, in genere di almeno cinque assaggiatori qualificati, anche per avere il supporto della statistica per la validazione dei dati, come vuole la buona prassi per i test di analisi sensoriale.
Bene, nel tour di cui vi sto parlando sono emerse diverse cose, ma in questa nota vorremmo focalizzarci su una in particolare: miscele di diverso livello di qualità esitate sul mercato da uno stesso torrefattore.
Per chi vive con attenzione il mondo del caffè, quando arriva una tazzina con una marca si genera immediatamente un’attesa. Questa può ovviamente essere delusa dal barista che lavorando male può alterare il livello di piacere che è in grado di offrire, ma la delusione più cocente è proprio quando la miscela è così differente da non sembrare figlia dello stesso padre. Un vero tradimento.
Nel tour abbiamo rilevato che sotto la stessa marca convivono miscele che vanno dal pessimo al discreto.
Ora ci domandiamo: com’è possibile che un torrefattore sia così miope da non capire il danno che ricava dal cedimento che ha avuto mettendo sul mercato una miscela pessima quando ne ha altre discrete se non eccellenti? In primo luogo confonde ulteriormente il consumatore in un mondo già confuso: il caffè non comunica, se lo fa lo fa male (prendiamo per esempio la generalizzazione tra l’Arabica e la Robusta). Se viene a mancare anche la garanzia della marca a cosa ci possiamo aggrappare per fare una scelta di qualità?
A cura di Luigi Odello (Presidente dell’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè)
Fonte: Coffee Taster www.assaggiatoricaffe.org