Bella gente gli emiliani: edonisti e compagnoni, schietti, ma affabili, genuini e sanguigni, per niente acidi. Forse perché le tinte morbide del paesaggio li hanno votati al ben vivere smussandone nel tempo le asperità del carattere. E il loro espresso è un po’ così: si presenta cremoso, ma non manca mai di corpo e di carattere. C’è voluto però circa un secolo perché la preziosa bevanda coloniale passasse dalle mani di volenterosi pionieri alla tazzina dal gusto rotondo e persistente che oggi si può godere nei bar di Modena e Bologna.
In Emilia il caffè come bevanda da consumare fuori casa è stato introdotto verso la fine del 1800. Era venduto nelle osterie e si otteneva lasciando in infusione la polvere nell’acqua bollente dentro filtri in tessuto. Solo al tramonto del XIX secolo comparve la macchina a pressione di vapore.
La tazza era allora molto più grande delle attuali e il caffè, essendo preparato all’istante su richiesta, venne così ribattezzato “espresso”. Ma questo caffè era all’epoca niente più che una nera bevanda dal gusto bruciato; l’operazione era lunga e laboriosa: ci voleva circa un minuto per ogni tazza e un “macchinista” doveva controllare continuamente la caldaia, acqua e pressione, e caricare il carbone per il riscaldamento.
Uno scenario che evoca più i fumi della rivoluzione industriale che gli attuali piacevoli sentori di nocciola e frutta secca. I macinini utilizzati all’epoca erano quelli che venivano usati anche per il pepe. D’altra parte, negli stessi anni, anche a Bologna le torrefazioni, a partire dallo storico Caffè Roversi, non vendevano solo caffè, ma anche altri prodotti coloniali come il cacao, il pepe e altre spezie che arrivavano attraverso i porti di Genova e Napoli. La tostatura inizialmente veniva fatta con impianti a carbone, che tuttavia erano usati anche per tostare mandorle e nocciole, che sono entrate poi a far parte del gusto dell’espresso emiliano.
Il caffè proveniva essenzialmente dal Centro America e dal Brasile, del quale era particolarmente apprezzata la varietà Santos Mogiana, che legava bene con gli altri componenti della miscela come Portorico, Guatemala ed Etiopia. Una miscela che alla finezza dell’Arabica ha poi unito il carattere robusto dei chicchi del Congo, dell’Indonesia e in seguito dell’India, allo scopo di ridurre il grado di acidità e di conferire al caffè una viscosità maggiore.
Nel secondo dopoguerra i torrefattori iniziarono ad apportare delle variazioni e a farsi concorrenza offrendo ciò che la gente mostrava di apprezzare di più: un caffè dalla tostatura media, corposo e cremoso. Gli emiliani si incantavano qualche secondo nel fissare lo zucchero in sospensione sulla superficie e, come lo zucchero, si facevano poi lentamente avvolgere dal morbido della bevanda calda e dai suoi piacevoli sentori di frutta secca che in bocca richiamavano il cioccolato e garantivano loro una certa persistenza.
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Fonte: www.coffeetasters.org/