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Non è possibile parlare del Lazio senza parlare della capitale italiana Roma caput mundi, e questo vale anche per il caffè. Alcuni studiosi stanno ipotizzando infatti che già in epoca imperiale l’aristocrazia militare di ritorno dalle campagne in Africa e in Medio Oriente avesse portato con sé del caffè, di cui iniziò a bere infusi creati con la polpa delle sue ciliegie.
La città che conosciamo affonda le sue radici nella storia antica, e la sua cultura gastronomica locale nasce in modo particolare dagli ultimi trent’anni di storia sociale dal dopoguerra a oggi. Centro dei ministeri, del potere e delle relazioni politiche, Roma è stata guidata nella sua arte culinaria soprattutto dal popolino, dai migranti di tutta la regione che hanno di fatto creato anche il gusto del caffè del Lazio. Parliamo di quel popolo che veniva pagato al mattatoio del Testaccio con gli scarti della macellazione dei bovini (teste, code, interiora) e che ha fatto nascere la cucina romana, una tradizione che, con molta fantasia, faceva di ingredienti poveri dei piatti estremamente saporiti, condendoli abbondantemente di spezie, erbe aromatiche e aglio: la pajata, la coda alla vaccinara, i nervetti, la trippa, le penne all’amatriciana e i carciofi alla romana. Tali usanze culinarie richiedevano qualcosa che togliesse gli aromi forti che le caratterizzavano dalla bocca. Niente di meglio che un buon caffè. Ma non un caffè qualsiasi: un caffè denso, scuro, con una crema consistente. Qualcosa che lasciasse in bocca un aroma forte e persistente.
Sono pochi quindi nel Lazio i torrefattori che non mettono in miscela del Robusta per seguire le esigenze e i gusti locali. D’altronde sono i baristi stessi a volerlo, tanto è vero che continuano a usare il caffè nel bicchiere, proprio perché nel vetro è più facile vedere la quantità della spessa crema che deve coronare il liquido denso e scuro. Tutti i torrefattori e tutti i venditori sanno che il loro caffè, quando arriva in questi bar, dovrà superare la prova del vetro, perché il barista sfoggerà per valutarlo un bicchierino trasparente a mo’ di lente di ingrandimento della qualità visiva dell’espresso. Qualità che verrà poi verificata dal cliente attraverso la prova dello zucchero: quanto più tempo ci mette lo zucchero a penetrare la spessa coltre della crema e scendere a fondo, tanto più lodata è la tazzina. Nei casi migliori il barista riesce a estrarre una vera e propria crema-materasso, che terrebbe lo zucchero a galla all’infinito, se non intervenisse il cucchiaino a mescolare i due corpi ben stratificati.
Non mancano però nel Lazio e nella capitale torrefazioni di alta qualità che ricercano e propongono nuovi stili più raffinati ed eleganti che giungono, pionieri nella regione, sino a delicate miscele di pura Arabica. L’espresso del Lazio risente infatti del mito di Napoli, che dista d’altronde solo poco più di un’ora dalla capitale e che era il suo più vicino porto di approvvigionamento. Da Gaeta, Formia e tutta la provincia settentrionale di Napoli partivano infatti i mercatari, che percorrevano la via Appia e la Pontina verso Nord. Questi portavano nella regione caffè anche già tostato fino ai mercati generali della capitale. Mettendosi in strada intorno alle cinque del pomeriggio con i loro camion un po’ scassati, avevano buone probabilità di giungere a destinazione per le due di notte, giusto in tempo per il mercato della mattina. Con sé portavano ortaggi, agrumi e, insieme ai prodotti della terra, anche qualche pacco di caffè.
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I laziali sanno quindi che “a Napoli si beve un buon caffè” e questo è per loro parametro e base di confronto per qualsiasi espresso. Di conseguenza i torrefattori della regione hanno sempre cercato un po’ di imitarlo, prediligendo così una tostatura scura e degli Arabica naturali rispetto a quelli lavati. Se in Campania però in origine era il barista a comprare il crudo direttamente dal porto, selezionandolo in base al proprio gusto e a portarlo a tostare in torrefazione, nel Lazio la conoscenza del caffè risiede invece tutta nelle mani dei torrefattori che, oltre a tostare, selezionano il crudo e distribuiscono il caffè spingendosi spesso a est fino alla costa adriatica. Il caffè che si trova a Roma, in Umbria, Abruzzo e Marche è quindi spesso molto diverso da quello della pur sempre vicina Firenze, a cui si avvicinano invece i gusti del Lazio settentrionale, intorno a Viterbo, e richiamano invece i gusti forti, intensi e partenopei che Roma ancora diffonde attorno a sé.
Fonte: www.coffeetasters.org/
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