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Il Birrificio Flea lancia la prima birra fatta… d’aria


Malto, luppolo, lievito e acqua. Sono i quattro ingredienti essenziali per produrre una birra, il prodotto alcolico più antico mai conosciuto con i suoi circa 7.000 anni di storia. Una ricetta di inaudita semplicità, declinata poi in centinaia di tipologie a seconda del credo e del gusto. Nessuno, almeno in Europa, aveva però mai pensato a farla nascere direttamente dall’elemento più naturale possibile.  Matteo Minelli, imprenditore 37enne, ha fondato il primo birrificio che ottiene birra dall’aria.

Due anni di ricerche che hanno portato al lancio della prima birra italiana creata dall’atmosfera, sotto il marchio del birrificio Flea, di cui Minelli (lo scorso anno nominato vice presidente di AssoBirra, l’Associazione nazionale dei Birrai e dei Maltatori che aderisce al sistema Confindustria) è fondatore. Il motore del processo è un enorme deumidificatore, per nulla diverso da quelli utilizzati per scopi domestici, funzionante in regime di autoconsumo: la macchina è infatti alimentata dai pannelli fotovoltaici montati sul tetto del birrificio e della pensilina dove è installata. L’aria  di Gualdo Tadino (PG), dove Minelli ha il quartier generale, viene quindi “imprigionata” dal deumidificatore, che la trasforma in acqua potabile e dà il via alla produzione della birra. Circa mille litri d’acqua al giorno, il tutto con un’impronta ovviamente green, senza nessun tipo di spreco o sovraconsumo. Anche il malto e il frumento necessari alla produzione provengono da coltivazioni biologiche a chilometro zero.

 

Purezza e ecosostenibilità: “Non sfruttiamo le sorgenti d’acqua, la produciamo direttamente”, dice Minelli, consapevole di aver sdoganato un filone produttivo potenzialmente rivoluzionario. Non è però il primo esempio del genere nel mondo: già nel 2012 si apprendeva della “Cerveza Atrapanieblas”, la birra acchiappanebbia, che il cileno Marco Carcuro aveva iniziato a produrre nei pressi della comunità agricola di Peña Blanca, persa nel deserto della regione del Coquimbo. Carcuro, insieme al fratello, era arrivato all’idea di sfruttare la nebbia perenne dei 700 metri di altitudine della sua terra per trasformarla in acqua, con un sistema di reti Raschel tipico degli agricoltori. “In Cile si consumano enormi quantità di birra, per la quale è necessaria un altrettanto enorme quantità di acqua. L’acqua del nord del Cile però è inadatta, troppo dura, ricca di carbonato, nitrato e nitriti”. Serviva un habitat meno contaminato, e le pareti del Cerro Grande si sono rivelate ideali.

Che sia quindi attraverso un macchinario sulle colline umbre, o sfruttando la condensa della nebbia nel deserto sudamericano, non sembrano esserci limiti all’inventiva dell’uomo quando è necessario trovare soluzioni o adattarsi alle condizioni in cui si trova. Specialmente se c’è la birra di mezzo.

 

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