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Sempre più spesso in Italia si parla di prezzo della tazzina di caffè al bar; molte volte se ne parla come giustificativo di una “non eccellente” qualità offerta. Quante volte si è letto o sentito dire “è si ma con 80 centesimi (o con 1 euro) cosa possiamo pretendere. Prova a vedere negli altri paesi a che prezzo ti vendono la tazzina di caffè espresso e poi capirai.” Effettivamente all’estero è facile trovare tazzine di caffè espresso a due o tre euro o anche di più.

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Allora ci si chiede: il prezzo è veramente il problema del settore? E se è un problema, perché non si aumenta?

Per rispondere a queste domande dovremmo partire dal significato di “prezzo”. Dai manuali di economia e di marketing abbiamo appreso che esso non è altro che l’espressione in moneta del valore di un determinato bene o servizio. In un contesto competitivo il prezzo esprime quindi il valore del bene o del servizio fornito. Da questa prospettiva risulta che in Italia il prezzo del caffè espresso al bar è tale perché “il mercato” riconosce ad esso quel determinato valore e non di più.

Gli economisti ci hanno insegnato che nella dinamica di mercato il prezzo è frutto dell’incrocio fra la curva della domanda e quella dell’offerta e, a seconda dell’inclinazione della curva, possiamo avere diverse elasticità al prezzo; un’elevata elasticità significa che un piccolo incremento di prezzo comporta un calo significativo dei volumi di vendita e viceversa nel caso di rigidità (i volumi della domanda non subiscono sostanziali variazioni).

Un mercato con elevata elasticità, com’è quello del bar italiano, offre scarsi margini di manovra alle imprese (e quindi bar) in termini di variazione di prezzo, a meno di voler rinunciare ad una bella fetta della domanda.

Sembra dunque trovarsi di fronte ad un paradosso: da un lato la qualità del caffè al bar non è elevata perché il prezzo è basso, e dall’altro gli operatori non possono aumentare il prezzo perché il mercato non lo permette.

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Se ne desume che il consumatore italiano non vuole qualità. Ma è vero?

Direi proprio di no, o forse è vero solo in parte (ritorneremo su quest’ultimo punto magari in altra sede perché richiede un approfondimento dedicato e per ora soffermiamoci sull’aspetto del prezzo).

Per spiegare questo apparente paradosso iniziamo con il comprendere perché all’estero si può vendere la stessa tazzina di caffè espresso con un prezzo multiplo rispetto a quello praticato in Italia.

Ciò è dovuto al diverso significato che la tazzina di caffè espresso (ed i suoi derivati) ha negli altri Paesi. In essi infatti la modalità tradizionale di consumo del caffè non è l’espresso, bensì il caffè filtro, o il caffè bollito, o il solubile, o … etc. Normalmente il prezzo del caffè per queste bevande è altamente competitivo e non si discosta molto dal prezzo medio italiano; in diversi casi è anzi inferiore. La diffusione di caffè espresso non ha sostituito le modalità tradizionali, che persistono nei consumi abituali, piuttosto è andata ad alimentare un nuovo modo di consumare il caffè, volto ad appagare bisogni secondari, di “autogratificazione” e di “appartenenza”; esso è vissuto come un “consumo di lusso” sia pur “accessibile”. Per questo la tazzina presenta prezzi molto più elevati di quelli praticati normalmente nella nostra penisola, dove invece l’espresso rientra fra le modalità abituali di consumo.

Alcune associazioni di categoria nazionali sollevano la questione del prezzo con l’obiettivo di trovare consenso per un suo riallineamento su soglie più elevate di quella attuale, eppure sembra che questi tentativi il più delle volte sono destinati a cadere nel vuoto. Perché?

E’ semplice, per la concorrenza. A differenza di quanto avveniva due o tre decenni fa, quando cioè se si desiderava consumare un espresso non si aveva altra alternativa che quella del bar, poiché le “macchinette” (così venivano chiamate) erano poco diffuse e oltretutto facevano caffè qualitativamente incomparabile, oggi possiamo prenderci una tazzina di caffè espresso in ogni dove: in casa, in ufficio, in negozio, dal parrucchiere, a scuola, nelle fermate degli autobus, etc. Attualmente quindi il bar ha una concorrenza molto più intensa, che va oltre il suo omologo vicino, e il prezzo della sua tazzina deve tener conto di tutte queste forme alternative di offerta. Anche perché esse hanno generato nel consumatore la cosiddetta soglia di “prezzo psicologico”, oltre la quale si ha una percezione di inadeguatezza per cui c’è il rifiuto all’acquisto. Possiamo immaginare quanti clienti scomparirebbero dai bar se venisse improvvisamente incrementato il prezzo della tazzina di 30 o 40 centesimi.

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E allora siamo condannati ad un caffè di cattiva qualità a causa del prezzo?

Direi proprio di no. Per spiegare questo aspetto vorrei fare un passo indietro ed illustrare il caso degli Stati Uniti. La situazione del paese negli anni ’60 e ’70 era la seguente: “… nelle tavole calde, l’offerta di caffè a volontà per cinquanta centesimi era un obbligo commerciale non negoziabile; i clienti si ribellavano a qualsiasi tentativo di alzare il prezzo anche solo di uno o due centesimi. Ma la fiumana di caffè gratuiti minacciava i profitti, spingendo i proprietari delle tavole calde a diluire il prodotto mentre chiedevano ai produttori di abbassare il più possibile il costo del caffè. Il Paese sviluppò progressivamente tolleranza per una bevanda che era, in realtà, acqua sporca all’aroma di caffè, preparata con chicchi che sapevano di terriccio ” (tratto da “Starbucks. Il buono e il cattivo del caffè”). Un quadro questo ben peggiore di quello attuale italiano; negli Stati Uniti il prezzo di una tazza di caffè non andava oltre i 50 centesimi. Poi però improvvisamente irruppe Starbucks che riuscì a farselo pagare un dollaro e sessanta (ben tre volte superiore al prezzo psicologico) e i consumatori anziché scappare, facevano la fila sui marciapiedi per consumare il suo caffè.

Questa vicenda ci insegna che il problema in realtà non è il prezzo, bensì il valore che viene offerto come corrispettivo; quegli stessi consumatori che si rifiutavano di pagare un centesimo in più per una tazza di caffè poi facevano la fila per pagare tre volte tanto una tazza da Starbucks.

Se ci riflettiamo bene questa realtà non è tipica dell’America, ma la ritroviamo anche in Italia: se esaminiamo il consumo domestico di caffè notiamo che per lungo tempo c’è stata un’intensa battaglia sul prezzo, poi improvvisamente scopriamo che lo stesso consumatore è disposto a pagare dalle 7 alle 8 volte di più se gli si propone di preparare la sua tazza di caffè con la capsula. Ancora una volta quello del prezzo è un falso problema.

Tornando al bar possiamo dunque affermare che il suo vero problema sta nell’incapacità di fornire un valore differenziale tale da giustificare un prezzo più elevato. E’ lì che occorre intervenire. Se analizziamo la sua offerta nella caffetteria, notiamo che essa è rimasta pressoché immutata dall’epoca in cui il caffè espresso poteva essere consumato solo al bar. Il resto del mondo nel frattempo è cambiato radicalmente mentre il bar è rimasto immobile. L’ininterrotto e progressivo calo dei volumi di caffè venduti dai pubblici esercizi nell’ultimo quindicennio (pari ad oltre il 25%) né è il triste riscontro.

La Filiera del caffè espresso - La degustazione del Caffè di Franco e Mauro Bazzara - Planet Coffee
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Oggi a casa o in ufficio il consumatore si sta abituando ad avere caffè diversi per momenti diversi della giornata, mentre al bar si continua a prendere “il solito caffè”. Se il bar iniziasse a proporre la scelta fra diversi tipi di caffè con profili aromatici e prezzi differenziati, probabilmente uscirebbe dalla trappola del prezzo e riuscirebbe a recuperare margini di manovra per elevare la qualità della sua tazzina. Questo non significa alzare indistintamente il suo prezzo, che anzi deve restare invariato per il caffè servito con l’attuale miscela, ma il barista può affiancare nuovi caffè più pregiati e con prezzi più elevati. Al consumatore viene così offerta la possibilità di scelta e soprattutto di esplorazione sensoriale dei caffè di diversa origine, arricchendo la sua cultura.

Così facendo il bar riuscirebbe a soddisfare le esigenze di un consumatore più evoluto e più colto di quello attuale, che se da un lato è anche più esigente, dall’altro è disposto a pagare molto di più per un caffè di qualità.

Ma attenzione. Per fare questo non basta aggiungere due o tre macinini e inserirci nuove miscele. Si tratta di affrontare un cambio radicale della proposta di offerta che richiede un completo stravolgimento del processo di generazione del valore al cliente. Non basta un semplice maquillage per essere credibile, ma occorre acquisire nuove competenze professionali per saper scegliere e valutare i vari caffè ed anche per saperli proporre adeguatamente al consumatore, occorre uscire dalla logica di rapporto vincolato con il torrefattore, occorre saper fornire al consumatore un’esperienza diversa e più qualificante di quanto avviene oggi etc etc. In altri termini, occorre fare in modo che per il consumatore fermarsi su una “macchinetta” non costituisca più un’alternativa equivalente a quella del caffè al bar.

Articolo di Maurizio Giuli

Scheda autore

maurizio_giuli

Maurizio Giuli è autore (insieme alla professoressa F. Pascucci) del volume “Il ritorno alla competitività dell’espresso italiano” (Franco Angeli, 2014) e di alcune pubblicazioni internazionali. E’ presidente dell’UCIMAC (l’associazione italiana dei costruttori macchine per caffè espresso) e dal 2002 è direttore marketing della Nuova Simonelli. Laureato in Economia e Commercio, ha conseguito il Dottorato di Ricerca (PhD) in “Economia e gestione delle imprese” ed il Master Science in “International Business” a Londra. Ha maturato esperienze come export manager ed ha insegnato “Economia aziendale” presso l’Università degli studi di Camerino. (Tweet @giulimaurizio)

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