Il caffè è un piacere, ma il costo pagato da ambiente e lavoratori per produrlo è alto. Diritti negati, biodiversità a rischio e speculazioni del mercato sono alcune delle responsabilità sociali dei marchi più noti che Altro Consumo ha rilevato visitando le piantagioni in Brasile ed Etiopia e analizzando la documentazione disponibile. Arabica, Robusta o miscele. In polvere, in capsule o cialde. Di caffè ce ne sono di tante qualità e formati. Ma – andando oltre i piaceri del palato – ti sei mai chiesto anche cosa c’è dietro la produzione? Nella inchiesta di altro consumo è stata analizzata la documentazione disponibile sulla responsabilità sociale delle principali aziende produttrici e fatto dei sopralluoghi nelle piantagioni in Brasile ed Etiopia.
L’industria dei pesticidi, inoltre, vende a questi piccoli coltivatori prodotti a buon mercato molto tossici, con pericolose conseguenze per la salute: “Il problema maggiore dell’industria del caffè è il cancro”, ci dicono i rappresentanti del sindacato brasiliano Cresol. Una buona notizia c’è: rispetto alla precedente inchiesta sulla responsabilità sociale delle aziende produttrici (2006), si registrano significativi progressi, ma si può fare molto di più. Tra i marchi più impegnati e trasparenti della nostra inchiesta ci sono Illy e Altromercato. (gli altri valutati sono stati: Nestlé, Kimbo, Caffè Kosè, Splendid, Compagnia dell’Arabica, Caffè Corsini, Caffé Vergnano, Lavazza, Segafredo e Pellini). Molti produttori hanno promosso azioni per assicurare ai lavoratori standard di vita accettabili, aderendo a codici di condotta e a certificazioni etiche ed ecologiche. Poche, però, le aziende che si sono attrezzate per valutare in modo diretto l’impatto delle proprie attività, per poi incentivare buone pratiche.
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