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Leggerezza e semplicità. Sembrerebbe bastare null’altro per poter arrivare a reggere i fili di uno dei bar più rinomati e storici del mondo, e Giulia Cuccurullo è il ritratto di entrambe le cose: nei suoi drink, nei suoi modi, nella sua storia. Da poco prima dell’estate è lei la nuova head bartender dell’Artesian Bar di Londra, per anni al numero uno della lista dei migliori bar del mondo e ancora oggi vera pietra miliare della miscelazione mondiale. È la prima donna di sempre a ricoprire il ruolo.

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I capelli d’argento e l’accento del mare, quello che ha lasciato quasi dieci anni fa per volare oltremanica e cambiare vita. L’età importa poco, e di certo molto meno della voglia, del coraggio, della sana incoscienza di abbandonare un piano e crearne uno di nuovo e migliore. È atterrata a Londra nel 2013, direzione ospitalità: “Avevo già lavorato nei locali più noti di Napoli, mentre studiavo architettura. Il bar è stato sempre un magnete, mi piaceva miscelare quando organizzavo feste. Ho iniziato a frequentare fiere e bar show, a studiare come potevo, ad amare tecniche e attrezzi”. Passione e fatica sono storicamente compagne di viaggio, ma quando la prima straripa, la seconda si affievolisce; certo che di strada ne è stata fatta.

Anche perché quando l’indole è forte, e il richiamo dei propri desideri ancora di più, gli avvenimenti si incastrano da soli. “Ho iniziato in un hotel a Londra, in realtà occupandomi della dispensa per la cucina perché volevo migliorare il mio inglese: poi sono passata a un ristorante francese”. Qui incontra Monica Berg, guru della miscelazione e della imprenditoria da bancone, quest’anno nominata persona più influente del mondo del bar; poi una piccola esperienza al 69 Colesbrook da Tony Conigliaro, sei mesi al Little Red Door di Parigi con Remy Savage, di nuovo Londra allo sherry bar di Tristan Stephenson. Nomi del gotha, e quattro indizi fanno una prova, parafrasando, a proposito di Inghilterra. Fino all’arrivo all’Artesian Bar: gli inizi in una vineria del centro storico di Napoli sembrano un puntino distantissimo, anche se la differenza è nei dettagli.

“Il bar, quando si parla di 50 best o location di fama mondiale, diventa una sfida continua, se possibile, ma a un livello più esperienziale. Il consumatore è solitamente già contento d’essere là, ha voglia di essere stupito, ha la mente e i sensi predisposti alla novità. A un bancone meno blasonato forse si fa più fatica a convincere i nuovi bevitori. Il punto fermo però rimane il servizio: deve essere eccellente, anzi, un’eventuale caduta rischia di essere ancora più sonora. L’Artesian è stato il miglior bar del mondo per quattro anni di fila, anche se qualche tempo fa (al top nel 2014, ndr): eppure gli ospiti arrivano ancora attratti da questi risultati”.

Aspettative che si traducono in pressione, ma il rispetto per il cliente è la più nobile delle qualità: “Se un ospite viene a trovarci, vuol dire che ha scelto noi in mezzo a centinaia di altre proposte. E noi dobbiamo valorizzare e celebrare questa scelta, il servizio deve essere eccellente come standard, sempre: abbiamo una enorme varietà di clienti, dai professionisti ai perditempo, da quelli con più disponibilità ai meno abituati a un certo tipo di consumo. E non fa differenza, vanno considerati tutti alla stessa maniera, qualcuno magari ha risparmiato mesi per poter venire a festeggiare da noi, e l’esperienza deve essere eccezionale, al cento per cento, sempre”.

Poche linee guida, polso fermo, idee chiare: le si parla al telefono e lei racconta di un’avventura straordinaria, come se però fosse la cosa più naturale del mondo. A supportarla c’è un team giovane e multiculturale, specchio delle esperienze di Giulia: “Mi sono formata sul campo, fatta eccezione per alcuni corsi. Rompendo le scatole, con la curiosità, con le domande. Viaggiare è stato fondamentale, capire cosa succedeva negli Stati Uniti, in Europa. Le lezioni sono validissime, ma rimangono visioni astratte finché non tocchi con mano: la preparazione è pratica, è adattamento, e si cresce così. Lavorare non è mai lavorare da soli, ma ascoltare, osservare, anche nelle competizioni, capire gli approcci. Altrimenti si rimane chiusi in bolla”.

Competizioni nelle quali Giulia, inutile dirlo, ha mietuto successi di rilievo. Lo scorso anno, ad esempio, ha sollevato il trofeo della Patròn Perfectionist Cocktail Competition: “Le gare sono utili se capisci cosa vuoi trarne. Non si dovrebbe partecipare solo per dimostrare quanto si è bravi, bisognerebbe esserci per un motivo in particolare: a me serviva fare training sul palcoscenico, ero terrorizzata, l’idea di essere davanti a tante persone, per non parlare di una giuria, mi spaventava. E mi sono iscritta per combattere le mie paure. Le competizioni in oltre sono l’unico posto dove puoi esprimere al cento per cento te stesso, senza dogmi né direttive del bar per cui lavori. Certo devi rispettare un brand, ma se sei iscritto per un brand che non ti piace hai commesso un errore in partenza, ti stai raccontando una bugia”.

Londra al centro del tornado con gli annessi e i connessi della Brexit, con le conseguenze e la gestione della pandemia. Ma in ogni caso un polo di accoglienza, soprattutto per gli italiani (chiedere ad Ago Perrone del Connaught Bar, primo della lista nel 2020) che si conferma meno ostile e spigoloso che altrove, soprattutto per una donna. “Non è semplicissimo neanche qui, ma è una differenza di approccio molto meno sentita, rispetto all’Italia. Al bancone siamo ancora poche, ma non fa scalpore averne una come head bartender, come direttrice, come bar manager: in Italia invece fa notizia, come se il genere fosse più rilevante della competenza. Essere donna è anche una responsabilità, perché si rappresenta comunque una categoria: è anche una posizione che mi da la possibilità di essere ascoltata di più, non solo dal team, piuttosto in generale. In ogni caso, l’unica strada per riuscire, alla fine, è lavorare bene, senza adagiarsi sull’essere donna, che può facilmente trasformarsi anche in strumento. C’è da combattere, essere serie, lavorare sodo. Non significa lavorare il doppio, ma lavorare seriamente”.

Sfiorando il cliché,  combattendo il pregiudizio e alla fine dimostrando quello che davvero si è: tutta la mentalità combattiva, pulita e decisa di Giulia promana dal suo approccio alla miscelazione. Minimalista, chiara, semplice: “Ogni elemento del drink deve avere un senso, una storia di sapori o personale, dagli ingredienti al bicchiere, fino alla garnish. Non mi piacciono i dettagli messi lì per colore o forma, deve esserci un motivo. Sono molto organizzata, faccio un gran casino nella vita privata, ma sul lavoro tengo d’occhio ogni dettaglio: penso che avere degli step di servizio, essere preparati ti dà modo di concentrarti sull’essere te stesso, sempre, sulla tua idea di ospitalità, senza distrazioni. Ti aiuta a rilassarti e a far rilassare”. Tutta questa precisione influisce sui ritmi fuori dal lavoro? “Sono scelte. Ho colleghi che timbrano il cartellino, io preferisco guardare al risultato, non mi interessa trascorrere più tempo al lavoro, anzi, più si investe più si raccoglie. La mia vita privata sarebbe più complicata se non fossi organizzata. È una questione di equilibrio”.

È una delle presenze fisse del Bar Brainstorming di Campari Academy, oltre che ospite ormai onnipresente quando si tratta di confronto, racconto e stimolo. Anche in quel caso, pochi dettagli che fanno però un segno impossibile da non notare: un fiocco nella pettinatura, un’intuizione tecnica, la chiacchiera calda che figurarsi se la si perde. Venire da dove viene, per Giulia, è uno dei principali motivi d’orgoglio, soprattutto perché la tradizione napoletana gioca un ruolo primario: “Noi siamo abituati a essere ospitali, fin da piccoli. Sembra un luogo comune, ma una volta stabili all’estero ce ne si rende conto: abbiamo un senso dell’accoglienza, una predisposizione per l’altro. Siamo concentrati senz’altro anche sul bello e sul buono, ma è nel calore umano, che si nota subito la nostra indole”. È in qualche modo un pezzo di storia, nella cultura del bar di Londra del mondo. E chissà che in futuro, l’accento musicale e la mano leggera non possano arrivare ancora più in alto. 

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