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Stelle che sono piovute, finalmente dopo una anno così travagliato per il mondo della ristorazione. E una stella, la più brillante di tutte, che invece si è congedata pur certa di rimanere indelebile nella storia e nei cuori del mondo. La guida Michelin e la fine di Diego Armando Maradona si sono intrecciate in un mercoledì pomeriggio, segnate da lacrime di gioia e mestizia.

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Piangeva in diretta Matteo Metullio, il ragazzo prodigio dell’Harry’s Piccolo di Trieste che vedeva ripagata la propria gigantesca scelta di vita: a ventotto anni nel 2017 aveva conquistato le due stelle Michelin alla «Siriola» nel paesino montano di San Cassiano in Alta Badia, prima di lasciare per stare accanto alla propria famiglia. Una follia professionale in nome di una vita privata che funzionasse, perché gli affetti e il calore di chi si ama sono forse il motore più inestimabile per qualsiasi successo. Ha vinto la propria scommessa d’amore, Matteo, perché ieri le sue lacrime arrivavano dopo l’annuncio della seconda stella ottenuta anche nel ristorante trentino in cui si è insediato, vicino casa.

Matteo Metullio

Piangeva in diretta anche Guillermo Andino, giornalista televisivo argentino che trai primi annunciava la dipartita di Diego Armando Maradona: il divino sgorbio di Brera, l’eroe romantico e dannato simbolo per gli oppressi del quotidiano, che ha detto addio per un’insufficienza cardiaca conseguente al ricovero dei giorni scorsi. Aveva compiuto sessant’anni neanche un mese fa, Maradona: anche lui aveva vinto, eccome, per quanto meno di quanto avrebbe potuto, e di certo meno serenamente. Aveva vinto dove nessuno c’era mai riuscito, assurgendo al ruolo di condottiero che batteva i potenti e perdeva con se stesso; Robin Hood del vizio e angelo della strada, che si piegava in curva tra cocaina spagnola e caffè della moka del fido Salvatore Carmando, unico preposto a toccare le sue gambe dorate, che lo seguì fino in Messico nel leggendario mondiale dell’86, ghermito con la mano di Dio.

La Mano de Dios

Piangeva quella Napoli strepitosa e controversa, che Maradona aveva scelto come Terra Promessa a sua immagine e somiglianza; popolo di diavoli maledetti e sognatori, trascinati alla rivalsa ogni domenica in novanta minuti durante i quali, per una volta e ogni volta, si poteva vincere nel mezzo di una vita che concedeva solo sconfitte. Partenope è stata per Diego l’unica casa che avrebbe mai potuto volere uno spirito martoriato e grande come il suo.

Casa, alla fine dei conti, è da dove proviene fortissimo il richiamo intimo della serenità, l’unico luogo che merita il massimo sforzo che un’anima può profondere. Matteo aveva scelto di tenere per mano la moglie Elena e il neonato figlio Nicolò, socchiudendo una porta che altri fanno a spallate per abbattere ogni giorno. Lo aveva fatto credendo in valori che troppo spesso oggi vengono prima sorvolati e poi rimpianti, quasi sempre sacrificati in nome di notorietà e privilegi mascherati da soddisfazioni. Quelle vere, di soddisfazioni, hanno il profumo di idee cucinate pensando a chi si vuole bene, e il morbido scivolare delle lacrime più vere. Denaro e Instagram c’entrano poco.

Maradona si era invece lasciato scegliere, trainato dalle mire calcistiche ed economiche di una società sportiva, per poi ritrovarsi divinità della gente che degli Scudetti, forse, avrebbe fatto anche a meno a patto di vederselo stagliato a petto in fuori e ricciolo indomito con la livrea azzurra, o con la barba incolta e il maglione a collo alto in giro per i locali. Sarebbe andato bene ogni risultato, purché il dieci fosse rimasto il bambino scalzo della Villa, ladro contro i ladri e nemico del sotterfugio, pronto a giocare nel fango in un parcheggio di Acerra e a “stoppare di petto un pallone sporco, anche con indosso un vestito bianco”. Napoli è stata casa sua perché è lì che Diego è diventato Maradona. Forse è solo a casa che Matteo si sente chef. E forse è casa, dove poter avere successo e piangere di gioia o di tristezza, che dovrebbero sempre essere per tutti un pallone o un ristorante.

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