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Max Dubini, l’italiano dal cuore boemo nel team Pilsner Urquell


“Fai quello che ami, e non lavorerai un solo giorno nella tua vita”. Per quanto inflazionata e ritrita, difficilmente si troverà qualcosa di meglio della massima confuciana per descrivere la realtà di Max Dubini, quarantaquattrenne di Varese che ha fatto della birra la sua vita. Amore a prima spillatura, quando dopo anni di lavoro gestionale si avvicina alla birra in senso assoluto, studiandola e comprendendola. Fino alla svolta definitiva: Max è il primo tapster ufficiale di Pilsner Urquell in Italia. 


PHISIQUE DU ROLE – Si riconosce da lontano: alto, massiccio, con una barba imponente che non intimidisce, anzi fa venire voglia di abbracciarlo. E la birra l’ha sempre avuta un po’ nel destino: un italiano atipico, come si autodefinisce, che preferisce il luppolo al vino e il rugby al calcio. “L’ho sempre bevuta, ma non mi ci ero mai avvicinato del tutto. L’incontro con un mio ex collega tedesco mi ha praticamente cambiato la vita, ho iniziato a trascorrere le mie vacanze in giro per birrifici di mezza Europa, tra Germania, Belgio, Repubblica Ceca”. La Boemia gli è poi rimasta nel cuore, ogni anno è Max è una presenza fissa al Pilsner Fest del 5 ottobre, per il compleanno della Pilsner Urquell: pochi mesi fa si sono festeggiati i 176 anni del prodotto, poi l’invito che Dubini non non vedeva l’ora di accettare.

FLASHBACK – Un salto indietro, necessario: a quando Max entrò in Birra Peroni come account, nel 2005, responsabile dei distributori tra Varese, Milano e Como. “Qualche anno dopo fu creata la business unit relativa a Pilsner Urquell per le città principali dove sviluppare il brand, Milano, Torino e Genova. Fu un successo, dalle città si passò alle regioni e ampliammo il portfolio con birre come St. Stefanus, le inglesi come Fullers, poi Asahi. Ci siamo allargati fino all’Expo”. Lì la piega definitiva, il progetto Tank di  Pilsner Urquell, l’idea di portare in giro la cultura delle botti nei pub, come da tradizione. Una bella palestra, poi un workshop a Londra sulle potenzialità del progetto, che hanno definitivamente convinto. “Sono tornato al Cheers Pub di Milano, che è un po’ come casa per me. Ho proposto  loro quest’opportunità e da lì abbiamo sviluppato il circuito, oggi contiamo nove tanks sparse tra Centro e Nord Italia”. E le previsioni parlano di ulteriore espansione.

TAPMASTER – L’invito di Pilsner Urquell, dunque, è quello a smettere quasi definitivamente i panni d’ufficio per indossare il grembiule di cuoio con cui lo si vede battere chiodo e martello nelle botti di mezza Italia. L’opportunità di entrare nel mondo Urquell a 360 gradi, divenendo membro della community dei tapster, gli spillatori che custodiscono segreti Urquell sia in quanto a tecniche che in quanto a ricetta e prodotto. Il progetto è internazionale e coinvolge praticamente tutto il mondo: “Ogni tapster è numerato, ad oggi  ne esistono 165. Io sono il 147esimo, e fare parte di una cerchia del genere è come sentirsi in famiglia”. Ruolo da ambasciatore e soddisfazione doppia se si considera che Max è stato uno dei pochissimi ad essere invitato pur non essendo titolare di un birrificio o di un locale.

FUTURO D’ITALIA – Da semplice gusto ad autentica passione, fino a diventare un lavoro vero e proprio. C’è qualcosa di molto più profondo, perché come racconta lui stesso, “non è solo questione di versare liquido in un bicchiere. La birra è uno stile di vita, una realtà che crea associazione come poche altre. Favorisce scambio di cultura, di opinioni, e far parte di una community del genere lo fa apprezzare ancora di più”. I suoi pellegrinaggi per l’Europa lo hanno portato a contatto con la tradizione birraria estera, punto di riferimento per il movimento italiano che ha ancora molto da imparare: “Siamo senza dubbio in fortissimo sviluppo, i produttori artigianali hanno dato una grossa spinta, prima eravamo decisamente ignoranti e non studiavamo”.

Ci sono però dei dettagli che non si possono trascurare. “In Italia ci sono tantissime birre, e questo crea una competizione naturale, che troppo spesso non è sana. In Repubblica Ceca c’è molta più identità, chi lavora nel settore vive letteralmente per questa birra. Serve più attenzione, più passione forse, bisogna partire da pub e locali per trasmettere quanto sudore e lavoro c’è dietro ogni boccale”. Fidatevi di chi adesso macina chilometri e pinte con un sorriso mascherato dietro i curatissimi baffoni brizzolati, certo di aver trovato la sua dimensione ideale: “Al lunedì vado al lavoro contento”. Come dargli torto.

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