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Esistono luoghi magici, di sacralità incredibile, illuminati da una luce, e un’atmosfera difficili da descrivere. È forse quella del tempo che ne dipinge i contorni, circoscrivendone per sempre i confini. La regione Piemonte, in questo senso, è forse tra le più ricche: con i suoi paesaggi, ancora nascosti, per i suoi vitigni che, a poco a poco, si stanno riscoprendo grazie al lavoro di uomini che per quella pazza follia e amore per il vino ne rilanciano il gusto e l’originaria filosofia. Come accade per il Pelaverga – ma non quello più noto delle Langhe – ma di Saluzzo. Qui, nel 2003, i ritrovamenti in una antica villa romana sono la testimonianza diretta di una produzione vitivinicola mai cessata diventata la spinta propulsiva per una ripartenza.

 

L’occasione per scoprirne la sua anima è stata la manifestazione Svitati organizzata nella culla di questo vitigno, Saluzzo. Manifestazione che voleva raccontare i gusti dei vini di montagna, arroccati nelle loro freschezze, coraggiosi, per il lavoro manuale e identitario che li distingue. Per questo, oltre a una masterclass sul Pelaverga, i banchi d’assaggio con produttori del pinerolese, della valsusa, valdostani, liguri e dello stivale tutto, narravano delle piccole grandi eccellenze eroiche d’Italia.

E che domanda c’è, nel mercato odierno, per questi vini?

C’è, e se la qualità si muove organicamente con la quantità, ci sarà una crescita progressiva, e costante. Analizzando il Pelaverga, ad oggi, siamo a quota cinque aziende che lo producono, in poco più di dodici ettari. E quali i punti di forza? Presentati da due icone della comunicazione AIS, Andrea Dani e Mauro Carosso, sono sicuramente una beva divertente, fresca, che gioca più sull’eleganza che sulla tannicità e struttura. Sono vini in cui spiccano le bacche dolci, le spezie, le foglie di te, dai colori più o meno carichi, e che difficilmente vengono fatti affinare in legno. Vini che non vogliono entrare nella categoria di quelli “da lungo invecchiamento”.

E se in principio, il Pelaverga di Saluzzo, nasce con il suo Marchesato, si deve ai monaci di Pagno, insediatisi in Val Bronda nell’VIII secolo, la sua diffusione. Di certo l’uva era già coltivata nel medioevo dall’abbazia di Staffarda ad alteno; altre testimonianze le ritroviamo nel 1511 con l’invio di “una trantena di botalli de vino de Pagno et de Chastella” a Papa Giulio II della Rovere da parte di Margherita di Foix, moglie di Ludovico II marchese di Saluzzo. Perché “el bon vin gli piasia: et non fu mai meglior espesa per la chassa de Saluce fata che mandar questo vino ch’è stato causa de tanti beni” (1863). E ancora nel 1600 Andrea Bacci elogia questi vini per il loro colore, qualità confermata anche dal saluzzese Della Chiesa: “vini di Saluzzo e della Valle di Bronda e massime di Pagno sono tali, che per la dolcezza, e delicatezza loro, sono tenuti in gran stima”.

 

 

Studi più recenti confermano che da un punto di vista ampelografico ci sia una differenza nel patrimonio genetico rispetto al Pelaverga piccolo di Langa, e che quello di Saluzzo sia originario della zona e parente con il Cari, uva dolce delle colline torinesi. Ed ecco che allora sarà il solo assaggio che ti restituirà le sue membra, ti svelerà il gusto del territorio di montagna. Le altezze e le esposizioni, qui, come non mai, fanno la differenza.

Dei tre i vini proposti: Cascina Melognis, Colline Castellar e Fratelli Casetta, l’interesse cresce, via via che i vini si scaldano nei bicchieri.

Lo stile, per ogni cantina, è scolpito, diretto e figlio delle proprie esperienze, con altre uve o specchio dei propri gusti. La forma, la progettualità comune, è invece ancora tutta da raccontare e percepire. Come? Vivendo il percorso di questi vini nel tempo: l’unico strumento in grado, insieme all’incontro tra domanda e offerta, di generare il valore di un progetto, come di una persona o di un vino. Sul tavolo abbiamo: storia, stili, brand Piemonte e il nome Pelaverga. E l’entusiasmo del giovane Consorzio delle Colline Saluzzesi. Si tratta ora di tracciare un percorso che proietti a una promozione improntata sulla territorialità, intesa come nicchia, con una qualità, bevibilità ed elasticità, soprattutto se si parla di abbinamenti, ammiccanti per il mercato. E per la critica anche, è arrivato il tempo di raccontare di questi vini fini e confinanti con i cugini d’oltralpe, piemontesi. Squisitamente piemontesi.

Un ringraziamento speciale a Mauro Carosso, per la sua passione – la sua, è una voce di difesa e promozione del vino – ad Andrea Dani, per la sua conoscenza della storia e la sua capacità comunicativa e a Rosalba Rolando per i suoi servizi sommelier, sempre inappuntabili.

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