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“Ognuno ha una favola dentro,
che non riesce a leggere da solo.
Ha bisogno di qualcuno che,
con la meraviglia e l’incanto negli occhi,
la legga e gliela racconti.”

Paolo Neruda

 

 

L’Associazione Giovani Vignaioli Canavesani, nata nel giugno del 2020, torna a far parlare di sé: investendo personali risorse, il dinamico gruppo guidato da Vittorio Garda, ha organizzato una tre giorni interamente dedicati alla promozione dei vini prodotti nel Canavese, tra la Serra d’Ivrea e la Serra di Caluso, e a Carema, il piccolo anfiteatro di vigneti eroici al confine con la Valle d’Aosta.

Se la prima edizione di Re Wine metteva al centro le denominazioni e la volontà di fare squadra, la seconda ha posto l’accento sul concetto di terroir. Parola abusata ma che tuttavia non è evidentemente ben chiara ai più; non c’è abbastanza consapevolezza di cosa ruoti realmente intorno alla costruzione di un territorio. E delle sue potenzialità. Ebbene, a far uscire la mente da uno stato nubivago ci ha pensato il seminario, andato in scena in un salone limitrofo alle scuderie del Castello di Masino, condotto da Armando Castagno (noto critico e narratore del vino di lungo corso, con uno speciale trasporto per la Borgogna).

 

 

COM’È CAMBIATO IL CONCETTO DI TERROIR NEL TEMPO

L’obiettivo del seminario? Aprire la mente ai giovani produttori, renderli più attenti e responsabili sul termine terroir; spesso sono proprio i vignaioli-attori di un territorio a non conoscerne il significato. Due le ore, abbondanti,  di presentazione – ci teniamo a precisarlo – per chiarire in maniera neutra e informativa il termine terroir, declinato via via nel canavese. Ma che in tutti gli areali prevede dei fattori variabili e fissi. I territori, che si identificano passando inesorabilmente dal gusto, fan si che la parola terroir presenti infatti molti legami proprio con il senso del gusto. Olivier Jullien nel 1932 diceva che “il vino che presenta il ‘gusto di terroir’ non era reputato al commercio per la gente di città. Si contrapponeva in questo al vino nobile, al cru.” Il gusto era terroso, salmastro, il vino con il “goût du terroir” non aveva dunque una connotazione del tutto piacevole. Era considerato un difetto. Più tardi, nel 1947, Joseph Capus, professore di agricoltura e politico francese, fondatore del ”Comité National des Appellations d’Origine” ovvero il precursore dell’attuale INAO (Institut National des Appellations d’Origine), si esprimeva invece così sul concetto di terroir: “La delimitazione delle AOC non trova giustificazione nella generica qualità del vino prodotto all’interno dell’areale. Questo non basta a fare un terroir. La delimitazione ha la sua ragione d’essere nel fatto che il vino che vi si produce esprime qualità esclusivamente in ragione dei fattori ambientali – suolo, sottosuolo, giacitura e clima –  e del modo in cui il vitigno o i vitigni si adattano a questo ambiente. Un vero terroir è un luogo in cui la prima ragione della nascita di vini ottimi è il luogo stesso.” E in un territorio, la presenza di una collettività attiva, e proattiva, appare necessaria, attitudini che ritroviamo nella definizione ufficializzata dall’INAO, in cui ogni parola impiegata trova un senso logico: “Il terroir è uno spazio geografico delimitato nel quale una comunità umana costruisce, nel corso della propria storia, un sapere collettivo fondato su un sistema di interazioni tra un ambiente fisico e biologico, e un insieme di fattori umani.” Il mondo naturale (la natura), il sapere e il fare dell’uomo ma anche la politica – intesa come gestione e scelte intraprese per la comunità – interagiscono tra di loro.

Anche in agronomia, l’odierno uso del concetto di terroir non può non prendere in considerazione diversi aspetti, dagli spazi rurali ai sistemi agrari, e dunque, se da un lato abbiamo i fattori naturali (clima, suoli, terreni), dall’altra ci sono quei fattori umani che assicurano i prodotti attraverso l’attuazione delle politiche di governance: dalla loro valorizzazione alla continuità produttiva. Come? Mantenendo viva la memoria.

 

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Castagno, leggendo qualche pagina del libro “Il paesaggio fragile” di Antonella Tarpino spiega che le comunità non si spengono, non esauriscono il proprio percorso, le attività continuano grazie alla memoria. Da non confondere con il tempo della storia poiché la storia è esterna a chi la racconta. La memoria è invece interna a chi la racconta e si materializza nel paesaggio. Paesaggio costruito dal capitale umano.

“Lo sfruttamento dello spazio è una questione umana” – dice A.M – e fino a dove arriva la tutela dell’unicità e originalità di un terroir? Partendo da un rigido disciplinare e una chiara delimitazione dei confini di una denominazione. Molti terroir – ivi compreso quello di Carema – sono cambiati nel corso del tempo. E continuano a mutare, come il loro valore e, con esso, la loro reputazione. Il cambiamento climatico ha imposto, ad esempio, un cambio nei disciplinari di produzione, con l’innalzamento delle temperature e relativo aumento delle gradazioni alcoliche ed abbassamento dell’acidità, si sono infatti autorizzati vitigni indigeni del passato, che apportano acidità – come l’erbamat in Franciacorta. E resta fondamentale, per qualsiasi terroir, una corretta interpretazione dell’annata da parte del produttore. E poi c’è un fattore sociologico, l’evoluzione dei terroir ha visto l’abbandono di pratiche stanziali in favore di produzioni personali, che impongono di seguire l’intero processo produttivo in prima persona. Ciò ha permesso al terroir di raccontarsi con altre sfaccettature, e di catalogare questi viticultori come vignaioli, vigneron, che col loro fare tutelano ed enfatizzano una produzione che avviene in un determinato luogo che passano da “vinificazioni che devono essere trasparenti, e con il minore numero di interventi correttivi in cantina” – questo è solo uno dei sei punti che formano una sorta di decalogo scritto in un recente convegno a Marsiglia. Una “polarizzazione tipologica” come definita da Castagno.

 

IL PAESAGGIO DI CAREMA, UNA MEMORIA STORICA DA SVILUPPARE

 

 

“Il paesaggio conserva l’impronta indelebile” – scrive la Tarpino. I vigneti terrazzati nell’anfiteatro di Carema, composti da suoli riportati di origine morenica, sono la rappresentazione della memoria, dell’agire della comunità nel tempo. E che grazie ai produttori dell’Associazione Giovani Vignaioli Canavesani si è affermata nell’ultima decade. Basti pensare che solo nell’ultimo anno si sono impiantati 7 nuovi ettari all’interno dell’intero areale canavesano, “un numero enorme se si guardano i costi e gli sforzi che coinvolgono un vigneto terrazzato canavesano. Per molti produttori, il vino non è il core business” – ha detto Vittorio Garda. La forza di questo risultato risiede nella memoria: Carema nel 2013 contava 13 ettari vitati, oggi 22, compresa la frazione di Airale. Un paesaggio mozzafiato, di grande sentimento, “immaginabile come tessuto connettivo tra i luoghi”, in cui “gli itinerari sociali e tecnici mesi in gioco rivelano una originalità” delineando una tipicità, in un determinato spazio fisico; prodotti unici che si rimettono al giudizio dei consumatori. Un’originalità che considera come unica via di realizzazione l’impiego del Nebbiolo (Picutener e Prugnet) su rocce moreniche alle pendici del monte Maletto, fino a un massimo di 600 metri slm, un’indicazione di altitudine che il disciplinare inserisce forse perché in passato la superficie vitata era pari a 70 e si sviluppava tutta intorno alla città di Carema, e che presumibilmente raggiungeva quella quota (oggi il punto vitato più alto si trova a 508 metri slm).

L’unicità del Carema si trova oggi in maniera più approfondita e scandita in alcune delle produzioni della decina di aziende attive nell’anfiteatro morenico. In alcuni casi sono già in essere gli approcci parcellari in vigneto e in cantina, e che presto – se si deciderà di inserire nel disciplinare di produzione le vigne mappate  (43 a Carema e 7 ad Airale) potrebbero apparire in etichetta. La preziosa Doc Carema si potrebbe infatti allineare ad altri areali produttivi in cui è ammessa la menzione del vigneto di origine. Un verticalizzazione, insomma, nomi come Furiana, Fobbie, Neirere, Fare, La Costa, Ruere, Runc, potrebbero essere presto sotto gli occhi dei consumatori.

Ne sono un esempio gli ultimi due vini presentati in una batteria di 7 – tutti della 2018 – prodotti da una singola vigna: Runc e La Costa rispettivamente, della Cantina Togliana e Monte Maletto. Dal gusto più austero, il primo presenta tannini puntellati e materici con toni balsamici e iodati a supporto di frutto dotato di buona concentrazione, più aperto, fibroso e floreale e con una sottile grana ferrosa invece il secondo, prodotto con grappolo intero. Succoso, agile, energico e luminoso il Carema Sorpasso, più balsamico e chiuso i primi tratti, il Carema Sumie di Muraje, che con l’areazione riporta a un Nebbiolo che potremmo definire di stampo classico: ampio, elegante, carnoso, il frutto si accompagna a vigorosi aromi di rosa.

 

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