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Ronchi di Cialla è la storia di un uomo e di una famiglia che cinquant’anni fa scelse la sua terra e le sue idee, rinunciando alla sicurezze di un posto di lavoro. Le vicende di un sapere perduto, ripreso per le ultime foglie e rimesso là dove merita, per poi essere tradotto in ogni angolo del mondo. Soprattutto, è la passione odierna di due fratelli, scienziati e vignaioli, che continuano a dare energia a un bene millenario.
Paolo Rapuzzi nel 1970 decise di lasciare il suo posto di concessionario della Olivetti, e oggi rivive negli occhi e nelle parole dei figli Ivan e Pierpaolo, periti agrari e laureati in Scienze delle Preparazioni Alimentari. “Voleva fare qualcosa in proprio, e che fosse autentica da solo”. Era legato, Paolo, al Friuli, una regione piccola ma ricca, influenzata dall’anima acquatica di Venezia a sud, dalla bellezza malinconica e futuristica della Slovenia a est, dalla rigidità funzionale di Austria e Germania a nord: “Qui, essere imprenditori voleva dire fare vino, ma lontano dalle idee di contaminazione internazionale. Papà voleva riprendere le antiche varietà d’uva locali”. Non esattamente una passeggiata: i documenti d’epoca parlavano di circa trecento specie diverse, quasi del tutto estinte dopo la devastazione della fillossera e delle guerre.
Iniziò un lavoro di ricostruzione fatto di visite al Capitolo di Cividale, dove erano conservate le registrazioni commerciali; di continue conversazioni con gli anziani della zona, che ricordavano e raccontavano di quel sapore, quell’aroma, quel colore. Andò ritagliandosi quindi il profilo di una coltivazione d’altri tempi, che richiamava aneddoti e immagini sbiadite: Picolit, Verduzzo, ma soprattutto lo Schioppettino, così chiamato per la buccia spessa che schiocca una volta masticata, datato addirittura intorno al 1200. Paolo adesso aveva una missione: insieme alla moglie Dina, che oggi fa da memoria storica e trasmette linfa agli eredi (la terza generazione cresce già in vigna), fondò quindi Ronchi di Cialla, una gemma che gode della sua presenza a ridosso delle montagne, un ombelico di cultura e racconti circondato da un’enorme foresta. Una cinta di valle verde che vuol dire silenzio, tempo per se stessi e per le proprie paure e sogni.
Nel 1970 quindi, il primo tentativo di mettere giù, ripiantare lo Schioppettino: semaforo rosso dopo pochissimo, l’assessorato regionale all’agricoltura informa i Rapuzzi che procedere sarebbe illegale, perché il vigneto non è ammesso nell’albo ufficiale della regione. Paolo e Dina individuano allora le ultime piante di Schioppettino rimaste (trovate in stato di enorme abbandono) e le trasferiscono per innesti nei loro possedimenti, con l’aiuto nientemeno che del sindaco. In soldoni, un impianto abusivo con la connivenza delle amministrazioni, stante la volontà di autodenunciare tutto con l’inizio della produzione. La svolta decisiva arriva grazie a due mostri sacri della viticoltura italiana e non: la famiglia Nonino e il critico Luigi Veronelli, che si inventano il premio “Risit d’Âur”, vinto ovviamente da Ronchi di Cialla: la medaglia d’oro è un’automatica autorizzazione.
Lo Schioppettino e l’azienda sono quindi al centro del riflettore, nel ’76 arriva la conferma legislativa e da lì è una sequela di risultati e soddisfazioni: la prima vendemmia nel ’77, l’ingresso nell’89 entra nella DOC Colli Orientali del Friuli, la denominazione della sottozona Cialla nel ’95, della quale i Rapuzzi hanno di fatto il monopolio. Dal ’78 lo Schioppettino di Cialla è stato reimpiantato ovunque: “Qualsiasi vino abbia questo nome nel mondo, e se ne trovano in Oregon, in California, deriva da qui”. Un’uva che parla la lingua della fatica, della tenacia e della lotta contro il tempo, oltre che al dialetto di chi crede in un sogno ed è disposto a tutto per farlo. Il terreno che appartiene alla famiglia era in origine frammentato tra proprietari che avevano lasciato il Friuli a causa di povertà, guerra e terremoto: negli anni i Rapuzzi hanno ricontattato ogni singolo latifondista, andando a raggiungerli in Australia, Belgio, Sudafrica, pur di consolidare le loro visioni.
Un microclima fresco, vigoroso, che aiuta la vite (e le persone, a vedere la famiglia Rapuzzi) a resistere a malattie e insetti. Ronchi di Cialla è inoltre l’unica azienda nei dintorni, una garanzia che ripara dall’uso di chimici o strumenti alieni di eventuali coabitanti del territorio. Trenta ettari di possedimenti, venticinque dei quali dedicati alle vigne, che sono inframmezzate nelle foreste e assegnate in base alle qualità del terreno: è tutto frutto dell’esperienza e della continua ricerca di scienza e qualità; trai prati della tenuta si può trovare una raccolta ampelografica di quaranta vitigni autoctoni, semiscomparsi (tra cui la leggendaria uva della terra promessa), curata solo per averne ricordo. Tutti motivi che nel 2014 hanno convinto il colosso Sagna a inserire l’azienda nel proprio portfolio.
La maggioranza della coltivazione si incentra su Ribolla e Schioppettino, per un volume che oscilla tra sessantamila e le centomila bottiglie l’anno (60/40 la proporzione tra bianco e rosso), con una linea di freschezza a far da conduttrice. Non c’è un agronomo, un enologo, un comparto amministrativo: “Viviamo l’azienda in ogni aspetto, e anche la pandemia ci ha aiutati a riscoprire il lavoro e il rapporto con la terra”. La conoscenza del suolo deriva anche da un dettaglio introvabile altrove: Ivan e Pierpaolo sono entomologi di caratura mondiale, collaborano regolarmente con Cina e Medio Oriente e hanno già contribuito alla scoperta di circa duecento nuove specie per la scienza e la fauna italiana.
La degustazione è un viaggio memorabile nell’evoluzione e nei ricordi della famiglia Rapuzzi, che si scopre e si racconta in una verticale di Schioppettino: dal 2015 che già va ammorbidendosi dimostrano un potenziale esplosivo, passando per il pepe vigoroso e rispettoso del 2004; botanicità e spezie si rincorrono nel ’92 e nel ’96, dove iniziano a venir fuori paprika e tabacco. La chiusura è da fotografia: ’83 e ’86, si sente il peperone e dopo qualche minuto rinforzano il caffè e la liquirizia. Autentica perla il Sôl 2009, un Picolit secco, lungo, floreale, fragrante: la stessa varietà, ma dolce, ha richiesto “quasi dieci anni prima di produrre”. Dieci anni di cure e passione, forse di dubbi e sofferenze in alcuni momenti, prima delle soddisfazioni copiose.
Si ritrovano toni antichi in tutta la gamma, come nel Ciallabianco (blend di Ribolla, Picolit e Verduzzo), che giova di una fermentazione in barrique e un anno in botte prima di essere imbottigliato. Freschissimo, acido, lungo, con una chiusura amara gradevole. Oppure il Refosco, che passa dal calore curvaceo del 2012 alla presenza tesa e diretta del 2001. Non un singolo sorso rimane senza significato, pregno di una vita e di un’intera famiglia che ha dedicato la propria esistenza a nutrire uno spicchio di natura feconda e accogliente, che ha saputo sconfiggere il tempo, la burocrazia, la politica: vent’anni fa camminare in vigna, a Ronchi di Cialla, significava sentire le ombre jugoslave fluttuare strette e minacciose tutte intorno. Oggi è un’oasi che non vorreste lasciare mai.
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