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In una terra che racconta tradizioni e porta avanti usi e costumi secolari, c’è da viaggiare a lungo e ovunque per poter avere un assaggio di ogni dettaglio. L’Italia è una mappa enogastronomica puntinata di centinaia di ics, ognuna delle quali segnala un tesoro. E il San Domenico di Imola è in realtà esso stesso uno scrigno che nasconde due perle fuori dal tempo e dagli schemi.

Più di quarant’anni fa arrivò la seconda stella Michelin (nel ’75 la prima) in un’epoca che sembra lontana ere. Non c’erano social, il passaparola e le penne di punta erano gli strumenti più affilati per portare in giro un nome e una reputazione, insieme alla passione per la cucina del territorio. San Domenico era stato aperto da Gianluigi Morini nel 1970, spinto dal desiderio di proporre la tavola domestica dei nobili su un piano di ospitalità ai visto prima. I clienti si trasformavano in avventori familiari, lo spirito casalingo veniva tradotto nella rivalutazione delle materie prime raccolte a due passi dal ristorante; preludio inaspettato della moderna concezione di ristorazione, che nei giorni di oggi punta sempre più spesso alla tutela della tradizione e alla celebrazione del chilometro zero. Il primo vero tesoro del San Domenico sta tutto qui: un servizio d’altri tempi, gli interni caldi e invitanti con divani in pelle e soffitti a cassettoni; invisibili guanti bianchi che curano calici dalle mille forme, piatti curati già nella scultura ad hoc per ogni portata, il sorriso genuino e mai altezzoso di chi la sa lunga su cosa voglia dire accogliere, coccolare, raccontare.

San Domenico

L’influenza delle culture enogastronomiche estere o esterne si nota morbida, senza intaccare l’identità del posto. Il leggendario Nino Bergese intervenne per modellare il San Domenico verso vette di qualità inesplorate, prima di passare lo scettro a Valentino Marcattilii, a sua volta tramite fino al direttore storico Natale Marcattilii. Francia, Europa, Stati Uniti: negli anni ’80 l’esplosione oltreoceano, il San Domenico NY apre, ammalia, conquista e fa girare la testa al Nuovo Mondo, raccogliendo consensi tra pubblico e addetti ai lavori (su tutti il New York Times). Prima ancora di sedersi per l’esperienza totale del cibo del San Domenico, sono le storie, la cultura, la fermissima aderenza ai canoni tradizionali mista alla voglia di non ancorarsi troppo al passato, a riempire occhi e polmoni. Fino all’amore di una famiglia che di questo luogo ha fatto il suo credo: alla guida della cucina c’è Max Mascia, figlio di questa stessa terra e nipote dei Marcattilii, che pur adeguandosi ai nuovi trend, non ha mai smesso di celebrare le sue origini.

Max Mascia e Valentino Mercattilii – San Domenico

Ne è esempio il must assoluto del ristorante: l’uovo in raviolo con burro di malga, parmigiano dolce e tartufo. Un classico che continua ad attrarre ammiratori da tutto il mondo, pur sottoposto a minimi aggiustamenti necessari dati i tempi: “Negli anni ’80 era un piatto ricchissimo, quasi coperto dal parmigiano, perché era così che era nato e che si mangiava in questa parte della regione. Le abitudini sono cambiate, noi siamo stati chiamati a rendere il raviolo meno pesante, più moderno, senza ovviamente perdere di vista la nostra identità”. Strepitoso l’avvio di degustazione con i piatti di mare: ostrica al lime con brodo di prosciutto, un crudo di scampi e caviale che esplode sensibile su un’acqua di pomodoro da far brillare gli occhi, e il gambero rosso avvolto nella goletta di maiale, materie prime contrastanti che ben si abbracciano senza mai coprirsi. Sapori di campagna che strizzano l’occhio a prodotti tradizionali ora di nuovo in auge: l’insalata di animelle e ovuli con riduzione al vermouth è un quadro da ammirare a occhi chiusi per perdersi ovunque.

Uovo in raviolo – San Domenico

Il tesoro numero due è quello fisicamente nascosto, perché prezioso, ricco, sofferto. La cantina del San Domenico si estende per tutta la superficie delle fondamenta, custodisce più di tredicimila referenze, arrivando a bottiglie di due secoli fa. Le chiavi delle mura in pietra, nelle quali si incastrano botti e casse impolverate, sono affidate all’estro e allo studio efficiente del sommelier Francesco Cioria: la potenza assoluta dell’Albana di Romagna Codronchio 2004, la forza delle radici del Cannonau di Sardegna Barrosu Riserva Fransisca 2015; passando per una chicca da lacrime, un Cerasuolo d’Avruzzo Vigneto Sant’Eusanio 2018, meno di millecinquecento bottiglie prodotte. Due passi in cantina valgono l’intera giornata, come bombardati da etichette disegnate, odori di emozioni e tavolate in legno. Si costruisce così l’anima di San Domenico: gusto, cura dei dettagli, ricercatezza sobria, giovialità professionale. Oggi è quello che negli anni era già stato, un’oasi che fa sentire a casa e allo stesso tempo porta lontano. Ma forte di una consapevolezza e un carattere acquisito anche nelle difficoltà: l’avventura statunitense portò alla perdita di una stella Michelin, poi riacquistata e da allora custodita con orgoglio e sacrificio, reinventandosi senza mai snaturarsi. Per i prossimi quarant’anni, fino a chissà quando.

Cantina – San Domenico

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