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Si può essere bartender e astemi? La curiosa storia di Chiara M. Randazzo


Chi ha detto che tutti i bartender sono dei grandi bevitori? Chi ha detto che per diventare un bravo bartender si debba per forza amare il sapore degli spirits? La storia di Chiara M. Randazzo, giovane barlady siciliana, rappresenta la perfetta smentita a questo storico cliché.

L’abbiamo intervista su Beverfood.com, con una chiacchierata a 360° sulla sua esperienza, il suo percorso e le sue origini nel mondo della mixology, ma anche la miscelazione siciliana e isolana più in generale, con un focus speciale sui prodotti territoriali, stagionali e genuini che Chiara M. Randazzo utilizza nei suoi drink.

Chiara, raccontaci di te: come ti sei avvicinata al mondo della mixology?
“Dopo i miei studi prettamente scientifici, ho sentito l’esigenza e il bisogno di trovare una collocazione lavorativa che mi mettesse in grado di riunire la parte empirica e la parte estrosa del mio carattere. Ho quindi abbracciato un’altra delle mie passioni dopo lo sport e ho cercato progressivamente la mia strada. Dapprima mi sono iscritta a un corso di cucina, cominciando a lavorare proprio in quel settore, ma ben presto mi sono accorta che non era quello ciò a cui miravo. Per come sono fatta, voglio infatti vedere e sentire la reazione diretta delle persone che mi stanno davanti. C’era troppa distanza tra cucina e consumatore finale, c’era qualcosa che stonava… Volevo fare qualcosa per gli altri, così ho cambiato percorso e ho iniziato a lavorare in sala facendo gli orari più disparati”.

La tua prima esperienza nel bartending è arrivata in un’icona palermitana.
“Dopo la classica gavetta sono passata al Close, un piccolo cocktail bar al centro della movida palermitana, e lì è iniziata una bellissima avventura. Ho imparato tanto fin dal primo giorno in questo minuscolo locale fatto di angoli nascosti, strani bicchieri, centinaia di spezie e appena 24 posti a sedere. Un mondo a sé, con le sue regole. Il vanto più grande è che proprio al Close ho conosciuto Adriano Rizzuto, quello che reputo tuttora il mio maestro”.

Quanto è stato difficile catapultarti in questa nuova dimensione?
“Pensate che io non avevo mai bevuto nulla… Ancora adesso a me non piace pressoché niente, devo essere sincera. Non sono astemia, ma ho una tolleranza alcolica veramente bassa. A livello gustativo non mi piace granché, non mangio agrumi se non in piccole dosi e miscelati. Non mangio frutta, mangio poca verdura, non adoro bollicine e fermentati… Questo è molto svantaggioso per il lavoro che faccio, ma dall’altro punto di vista sono stata subito costretta a memorizzare in modo dettagliatissimo ogni cosa che assaggiavo. Oggi stesso, quando provo qualcosa di nuovo, faccio mio un determinato sapore e profumo. Non è infatti scritto da nessuna parte che quel prodotto debba per forza piacere anche a me, l’importante è usarlo bene per farlo piacere al cliente”.

Un approccio piuttosto controcorrente e curioso, il tuo.
“Mi piace definire il mio palato come una tela bianca su cui io stessa scrivo esattamente quello che ho incontrato nella vita, a livello di gusto e di olfatto. Tutto è incentrato sullo studio del prodotto, personalmente mi piace creare un legame tra le materie prime, con attenzione particolare a homemade e ingredienti locali”.

Specialmente nella tua professione di barlady a Panarea, un’isola felice in cui è inevitabile fare di necessità virtù.
“Proprio così. Sei mesi l’anno lavoro a Panarea, nelle isole Eolie, e proprio lì ho trovato il mio angolo di paradiso. Si tratta di un isolotto veramente piccolo, un autentico gioiellino che, a livello di vita notturna, non ha certo qualcosa in meno di tante altre località simili. Il contesto è rurale, quasi d’altri tempi; non ci sono macchine, i colori bianco e blu ricordano la Grecia e la gente si sostenta per forza di cose con le materie prime della terra. Io in particolare lavoro all’Hotel Raya, un’istituzione che ha anche un suo peculiare brand di abbigliamento indonesiano, fatto con la tecnica del batik. Abbiamo una terrazza a dir poco suggestiva con altri due bar dove sono ubicati anche il ristorante e la discoteca. La nostra proposta è genuina e intrinsecamente legata alla stagionalità, alla natura e alla territorialità dei prodotti”.

Quali cocktail della vostra drink list ti senti di consigliare maggiormente?
“Dal bar al ristorante ci occupiamo totalmente di prodotti patriottici, se così possiamo definirli. I drink più interessanti sono sicuramente un twist sul Negroni con Farmily, Vermouth smezzato con Marsala siciliano e Bitter Campari infuso al cappero tipico delle Eolie, oppure uno Spritz con un Brut siciliano e liquore Malvasia Capofaro originario di Salina, oltre che succo di mela biologica, succo di pala di fico di Panarea e una scorza di lime. Tendiamo a minimizzare il drink cost per poter invitare sempre i nostri clienti a provare qualcosa di nuovo, con dietro un bel processo di ricerca e studio. Una filosofia che condivido appieno”.

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