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Poi non dite che non è vero, quando raccontano che soprattutto in Italia, ogni grande decisione è presa a tavola. A maggior ragione quando viene a mancare il vino durante una cena con amici: “E sono originaria della Valtellina, mi sono vergognata come un ladro”. Ben meno vergogna starà provando adesso Andrea Antinori: è là che si è manifestata l’epifania Winelivery, oggi autentico colosso in fieri.

I fondatori di Winelivery

In pochissime e quasi troppo semplici parole, vino a domicilio. Era il 2016, e la spinta definitiva arrivò dall’altra parte dell’Atlantico: “Andai negli Stati Uniti per un matrimonio, e ne parlai con alcuni amici che vivono là da anni. Ovviamente un delivery del vino esisteva già, è sempre così quando ci si confronta con gli USA. Ma mi bastò per tornare in Italia e coinvolgere Francesco Magro, mio socio e amico storico, e da là iniziare a lavorarci. Ci aspettavamo un buon risultato sulla base dell’esperienza americana, anche se sapevamo sarebbe stato faticoso”. Winelivery è una delle poche start up italiane con un volume di crescita costante, intorno al 600% di anno su anno fino al 2018, e del 300% fino al 2020, per ovvi motivi escluso dai calcoli al momento.

26mila euro di fatturato il primo anno, “Eravamo poveri!”; poi una progressione da centometrista olimpionico, 150mila il secondo, 400mila il terzo, un milione e mezzo lo scorso anno. Con probabilità che diventano certezze, di registrare un ulteriore importante incremento, alla luce degli eventi recenti: “Nessuno si aspettava il lockdown, ancor meno noi eravamo preparati all’aumento folle di ordini che abbiamo riscontrato. Dopo la prima settimana di quarantena abbiamo segnato un +25% che nel complesso avevamo anche potuto auspicare, dopo la seconda abbiamo avuto richieste dieci volte maggiori (+250%). Abbiamo ristrutturato tutta la gestione operativa, assunto personale per consegne e assistenza, sempre nel rispetto delle misure sanitarie. Abbiamo dovuto operare adeguamenti agli uffici, raddoppiare i driver ovviamente muniti di dispositivi di protezione. E abbiamo esteso il delivery anche all’hinterland e a nuove città”.

Reattività e lungimiranza: sembrerebbe un cocktail perfetto, più che un ottimo calice di vino. E i piani, manco a dirlo, sono ben lontani dall’essere esauriti: “Se da start up ci siamo evoluti in azienda è perché siamo abituati a guardare oltre. Il nostro obiettivo dichiarato era aprire in 25 città italiane a fine anno, in realtà riusciremo a realizzarlo a fine mese prossimo. Poi abbiamo nel mirino tutte le maggiori città italiane, non solo i capoluoghi come adesso, ma anche centri con un numero di cittadini sufficiente a giustificare il nostro sforzo”. Il vero capolavoro, in ogni caso, è la metamorfosi funzionale che è ormai sulla cresta dell’onda: “Già lo scorso anno ci siamo mossi per innovare i nostri servizi: da semplice piattaforma di delivery siamo diventati una vera media agency per il mondo del beverage, moltissime aziende si rivolgono a noi per posizionare il proprio prodotto. Noi costruiamo attorno ad ogni prodotto una campagna di comunicazione vera e propria per avvicinare il consumatore al brand. In pratica è come permettere a un enologo o un birraio di raccontare i propri prodotti come se i clienti fossero in cantina o al pub”.

L’anima di Winelivery, inoltre, è particolarmente affollata di sognatori dal fiuto per il successo: per raggiungere lo stato attuale, Andrea e Francesco hanno già effettuato con enormi frutti tre round di crowdfunding, per un raccolto totale di circa tre milioni di euro, cui si aggiunge un altro milione e mezzo di investimenti privati. Il passo all’orizzonte viene quasi da sé: “Siamo praticamente una public company, l’azienda ha circa seicento investitori. La nostra idea è quella di quotarci sulla borsa secondaria italiana, ma non sappiamo ancora quando. Avevamo pensato alla fine dell’anno o all’inizio del prossimo, ma adesso cambia tutto, dobbiamo valutare l’ondata post COVID-19. È comunque quasi un percorso naturale, oltre ovviamente a tutto quello che ne consegue in termine di notorietà sia sui media che in ambiti interessanti”.

E se la pandemia, che paradossalmente ha aiutato, dovesse poi rivelarsi l’unico motore di questo boom? Se una volta tornati alla libertà, il trend dovesse invertirsi? “Per creare un’abitudine ci vogliono tre settimane. Il consumatore si è abituato alla tecnologia, ha imparato a effettuare ordini, magari anche quei soggetti che primi erano restii perché avevno paura di usare la carta di credito online o simili. Per il delivery è un periodo d’oro. Incontriamo il favore di un target di clienti che forse non avremmo mai acquisito in condizioni abituali, e abbiamo l’opportunità di farli diventare aficionados. In futuro non ci sarà un rientro ai ritmi normali immediatamente, e molti clienti rimarranno con noi semplicemente perché hanno provato la comodità del servizio”. Le idee, insomma sono chiare: “Di certo non ci si aspettava l’entrata in gioco del Coronavirus. Ma quest’anno stiamo avendo i frutti che abbiamo sempre progettato, abbiamo un’azienda che lavora al massimo. E che diciamolo, offre un servizio fichissimo”.

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