Riportiamo di seguito l’intervento di Maurizio Giuli in materia di tutela Unesco dell’espresso Italiano
“Nelle ultime settimane abbiamo spesso letto notizie ed articoli riguardanti l’iniziativa di tutela dell’espresso italiano presso l’Unesco promossa dal consorzio appositamente costituitosi per iniziativa del Gruppo Torrefattori Triveneto Caffè.A tal proposito mi chiedo: è un’opportunità o una minaccia per gli operatori italiani del settore?Da un certo punto di vista essa è sicuramente un’opportunità in quanto finalmente riesce a mettere il bollino Unesco su quello che rappresenta il nostro orgoglio nazionale in termini di caffè. Da questa prospettiva non si può quindi che plaudire all’iniziativa ed augurarsi che vada felicemente in porto.Ma a fronte di tale opportunità si cela anche una minaccia, magari un pò meno evidente, ma sicuramente insidiosa. In cosa consiste? Essa riguarda il “cosa”, ovvero cosa viene disciplinato per “espresso italiano”.
Non essendo il caffè espresso un prodotto coltivato in Italia (per cui sarebbe facile attribuirne la paternità), ma un processo di trasformazione che vede coinvolti molteplici attori lungo tutta la filiera, alcuni dei quali risiedono in Paesi diversi e lontani dal nostro, risulta difficile disciplinarlo; è per questa difficoltà che probabilmente non si è mai riusciti fino ad ora a tutelare questa bevanda tricolore.Una soluzione semplice, ma allo stesso tempo riduttiva (ed a mio avviso non percorribile), potrebbe essere quella di individuare come espresso italiano il caffè che viene tostato, trasformato ed erogato in Italia. Secondo questa accezione autoprotezionistica implicitamente si presuppone che per avere un vero caffè espresso italiano occorre attingere alle competenze degli operatori italiani per tutto ciò che riguarda la selezione della materia prima, la sua tostatura, la conservazione e non ultimo la trasformazione del prodotto secco in bevanda.
Seguendo questo canone interpretativo un caffè tostato e confezionato in Italia, ma erogato in un Paese estero da un barista non italiano non potrebbe fregiarsi dell’appellativo di caffè espresso italiano. Ma forse a questo punto neanche un caffè erogato in Italia per opera di un barista non italiano; saremmo al paradosso, soprattutto se rapportato alla realtà attuale.
Una soluzione alternativa potrebbe essere quella perseguita dall’INEI (che fra l’altro è entrato a far parte del consorzio), la quale cerca di disciplinare il profilo sensoriale del prodotto in tazza.Questa via potrebbe portare a risultati migliori se però disciplina un “concetto di qualità” rigoroso, riconosciuto e quanto più oggettivo possibile. Come tale dovrebbe essere necessariamente restrittivo, più di quanto l’INEI stessa non sia riuscita a fare fino ad ora, e soprattutto non dovrebbe prescindere dalla qualità della materia prima utilizzata. Si dovrebbe evitare cioè che venga identificato come caffè espresso italiano un prodotto realizzato con materia prima di scadente qualità, la stessa che purtroppo oggi viene impiegata in moltissimi casi, per stessa ammissione degli stessi torrefattori. I grandi quantitativi di caffè Robusta importati dal Vietnam o da altri Paesi notoriamente produttori di caffè verde di mediocre qualità lo testimonia.
Senza un adeguato rigore, magari per consentire a molti di farne parte, si rischia di annacquare il significato della tutela, o ancora peggio di trasformare un’opportunità in una vera minaccia. La tutela dell’UNESCO infatti costituisce una vetrina importante, un fregio che porrebbe il nostro caffè espresso su un piedistallo visibile a tutti.
Se anziché tutelare un concetto di qualità obbiettiva e riconosciuta, si tutela una mediocrità, il bollino UNESCO non farebbe altro che certificare una non qualità dell’espresso italiano.
Più che un’opportunità essa costituirebbe allora una grave minaccia in quanto la maggiore visibilità offerta dall’UNESCO si tradurrebbe in un’auto certificazione che l’espresso italiano è quella “cosa tostata scura, amara in bocca e con il contenuto di Robusta”; ovvero avvaloreremo la definizione che nel resto del mondo viene attribuita al caffè italiano da parte dei suoi detrattori. Esportare caffè risulterà allora impresa ancora più ardua di quanto non lo sia già oggi e questo effetto si genererà a prescindere se si fa parte o meno del consorzio.
Auspico quindi che la tutela UNESCO non venga perseguita per una logica di autoreferenzialità e di autotutela ma piuttosto per trasmettere e certificare in modo inequivocabile un valore positivo al nostro caffè espresso
A cura di Maurizio Giuli
Maurizio Giuli è autore (insieme alla professoressa Federica Pascucci) del volume “Il ritorno alla competitività dell’espresso italiano” (Franco Angeli, 2014) e di alcune pubblicazioni internazionali. E’ presidente dell’UCIMAC (l’associazione italiana dei costruttori macchine per caffè espresso) e dal 2002 è direttore marketing della Nuova Simonelli. Laureato in Economia e Commercio, ha conseguito il Dottorato di Ricerca (PhD) in “Economia e gestione delle imprese” ed il Master Science in “International Business” a Londra. Ha maturato esperienze come export manager ed ha insegnato “Economia aziendale” presso l’Università degli studi di Camerino. (Tweet @giulimaurizio)