Un gran finale quello della prima edizione di Mivino, mostra mercato dei vignaioli artigiani e dei vini biologici e naturali andata in scena al base di Milano. Tra le 15 regioni presenti a svettare sul finale i vini della Valle d’Aosta, protagonisti con una chiusura degna di nota, con una degustazione affidata al giornalista Fabrizio Gallino, di Slow Wine, al secolo Enofaber. Una degustazione dei vini eretici delle cantine valdostane Les Petits Riens e Le Vieux Joseph, con la partecipazione straordinaria della Maison Maurice Cretaz. Un vero amore il suo per la Valle d’Aosta sfociato in un incontro con tre piccole realtà che fanno del concetto della viticoltura eroica la loro ragione di vita. Ma c’è di più, molto di più: l’aspetto umano, l’approccio naturale e di comunicazione con la natura per aprire la mente a chi ascolta su quanto c’è dietro la vite e vita di un bicchiere di vino.
Una verticalizzazione tematica in una regione con il rapporto superficie vitata/qualità tra i migliori dello Stivale dove cooperative, storici vigneron e giovani leve condividono il microclima formato dal Monte Bianco, il Colle del Gran San Bernardo e Monte Rosa, ma anche il sacrificio di un lavoro di fatica e di fedeltà al terroir con la voglia di mantener vive cultivar autoctone e d’oltralpe. Aosta, oltre ad esser l’epicentro di questo movimento è città poco piovosa, di origine romana e insieme a Napoli, Firenze e Torino una culla di storia ospitante vigne all’interno della sua cintura. Animata da un tessuto sociale che comunica in francese, italiano e patois. Una contaminazione che coinvolge gli attori tutti senza stravolgerne le origini e soprattutto le idee. Come nel caso dei protagonisti scelti da Gallino in rappresentanza di questa libertà di pensiero rivolto alla produzione di vini non convenzionali.
Come l’architetto di Sarre della Casa Maurice Cretaz che da ex conferitore della Caves des Onze Communes gestisce in biodinamica i suoi quattro domaines realizzando una petite arvine che stupisce per ricchezza e profilo sensoriale che ricorda erbe officinali, pesco e magnolia. L’uva proveniente dalla Svizzera che ha trovato in vallee un terreno d’elezione, è tardiva e di norma “giallo paglierino” ad usare il gergo dei sommelier, proposto nel Lie 2017 in una versione dal timbro tutto nato dal contatto con le bucce per 4-5 giorni durante la fermentazione. Una pratica attuata per assaporare al meglio le sostanze aromatiche e perdersi nel suo colore e nei suoi profumi. Per comprendere e raccontare la sua natura come faceva il nonno, patron delle vigne, in questi luoghi di resistenza con un lavoro artigianale svolto rigorosamente a mano da questa micro azienda nata nel 2015 che in meno di due ettari vitati a Pont Sanit Martin, Morgex e Chesallet si palesa con 4500 bottiglie annue.
Minuscola anche la realtà de Les Petit Riens, fiera della sua volontà, mirabile, da prendere come esempio soprattutto per chi non crede di potersela cavare oggigiorno con il solo lavoro di mani e cuore. Pochissime le bottiglie prodotte in spazi millimetrici. Due gli ettari di vigne in affitto abitate da dodici varietà, una ricchezza che rende attiva la curiosità dei due: lei milanese e lui svizzero che, come incontrati, hanno scelto la Valle d’Aosta come luogo in cui mettere in pratica i loro studi di enologia. Nel Si 2016 (600 bottiglie) troviamo l’unione di tre cloni di petit rouge per un vino acceso, morbido e di concentrazione spaventosamente serica data anche dai 24 mesi di affinamento in legno. Un vino così equilibrato e singolare per le sue note di ribes e di fiori essiccati da creare una magia luminosa che non accenna a spegnersi se non si decide di fare un secondo sorso. Che sarà sempre più luminoso, sempre più piacevole, di calore invadente e fibra gustosa. Il suo non essere etichettato come Valle d’Aosta Doc è voluto, i messaggi del suolo e del vitigno devono passare dal vino e non dal nome a volte portavoce di numerose aspettative e successiva confusione.
A dar un’altra scossa emotiva ci pensa infine la storia di Ilaria Bevastro. Il suo lavoro a Le Vieux Joseph nasce tutto nei suoi tre ettari a Chétoz, Quart, Aosta e Daudry. Iniziato con l’aiuto di un esperto della zona, Giulio Moriondo, attuando i suoi insegnamenti in vigne piantate nel 1906 ancora a piede franco. Fisico asciutto e carattere anticipano la sua refrattarietà al lavoro in altura tra 650 e 750 metri di piante di Pinot Noir, Vien de Nus e Cornalin. Destinate al Mariadzo 2015, vino intenso, stratificato e di personalità. E non solo per la percezione e fusione netta di tannini, aromi speziati e prugna. C’è una chiamata irresistibile che invita ad ascoltare la parte ancora nascosta dal frutto, più tattile e mordente. Un sorso solitario capace di reggere tranquillamente il confronto con quelli definiti come “grandi vini”. Già, ma cos’è un “grande vino? Questo lo è, per me. È incalcolabile il tempo trascorso da Ilaria in vigna – come per molti dei suoi colleghi- dove decide di sposare la pratica dell’assemblaggio, forse la più tradizionale in vallee, dopo la vinificazione separata delle singole vigne. Compagne della sua vita selvaggia in cui sentire le giornate che si allungano e i profumi delle stagioni. Seimila bottiglie annue, frutto di una vita immersa nella natura. Una terapia per il proprio benessere.