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Non è mica uno solo, il segreto. È un’alchimia che non si vede e per la quale non esistono formule, una chimica da respirare e vivere: puntini di uno stesso tratto di matita, che finisce con il disegnare i contorni di un piatto, di una città intera, di una cultura di consumo che risale a poemi epici e maschere nere dal naso adunco. Non c’è una chiave, ci sono piuttosto tante tessere incomparabili, che cadono al loro posto e accendono la magia.

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Quella più immediata si comprende con gli occhi: un impasto resiliente e duttile, che dopo un tuffo in friggitrice e pochi minuti di gentili coccole con la schiumarola, indossa un giaccone di strepitosa fragranza. Un’autentica nuvola, rigonfia di calore e sapori così semplici e popolari, da risultare nuovi e sorprendenti ogni volta: il movimento della rotella con cui viene sporzionata, quando con gli angoli fuoriesce abbondantemente dal piatto, è quello di un pendolo, che ipnotizza e accompagna verso l’inizio del sogno.

Poi il tassello dei sensi: il ripieno che investe naso e bocca, secondi di calore e goduria, storicamente seguiti da sano rimpianto per la prevista sfida di digeribilità, che invece il boccone vince serenamente, sempre. Ruvida, mai unta, straordinariamente leggera: e dentro, il fidanzamento eterno di pomodoro e ricotta (che può essere anche mozzarella), una singola cifra di granelli di pepe, oppure la versione dei ceti umili, che per non sprecare davvero nulla del maiale usavano i cicolilo strutto, che come si dice qui è la morte sua. 

(foto lucadea.com)

Un pezzo del puzzle è tutto intorno: è quello che si percepisce vibrare attraverso, che arriva da ovunque, che si capisce con i sentimenti. Napoli era un calderone accogliente di culture già ai tempi dei greco-romani, quando questo incrocio divenne il quartiere di accampamento per gli egiziani, una delle etnìe più simili ai figli di Partenope: che di certo non dissero di no alle colonie, dedicando loro, appunto, quella che oggi è Piazzetta Nilo. È il delirio di clacson, voci e musica, la statua del Dio del fiume là di fronte, la varietà di pettinature e lingue (è piena zona Erasmus), la Babele di odori di pietanze, vita vissuta e controversa, che rendono ogni morso quello che è, e che non sarebbe mai altrove.

L’ultimo granello per finire il mosaico è ovviamente quello più prezioso. L’amalgama che tiene cuciti gli ingredienti, e li cementa in una mezzaluna che si scioglie per bontà, autenticità, emozioni. È l’amore di una donna amata da tutti, caparbia nel supportare la propria famiglia, generosa quando negli occhi del nipote Gino, che da Napoli è arrivato a parlare il dialetto del mondo e non ha bisogno di presentazioni, ha visto il fuoco che avrebbe alimentato la sua tradizione. La pizza fritta di Zia Esterina Sorbillo è una favola dai tanti personaggi, con un solo finale possibile: sorridere e mangiarne un’altra ancora.

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