Molto più che di ingredienti, tecniche e sapori, la storia dei cocktail è fatta prima di tutto di persone e luoghi. Artisti e templi che hanno dato vita a ricette tramandate negli anni, o creato atmosfere da film poi diventate motivo di pellegrinaggio. Oggi si celebra una delle Mecca del mondo del bar.
Esattamente novantotto anni fa (8 febbraio 1923), un’insegna vide arricchirsi di un nome destinato poi a diventare leggenda. Il New York Bar di Parigi, acquisito nel 1911 dal fantino Tod Sloan, mito dell’ippica anteguerra e non solo, rischiava di abbassare per sempre la serranda, ricolmo di debiti a causa dello sfavillante e insostenibile stile di vita del proprietario. Si fece avanti Harry MacElhone, che dieci anni prima aveva calcato il bancone del locale come dipendente, per rilevarlo e rimetterlo a nuovo, cambiando il neon in Harry’s New York Bar: sulla scia della fama già acquisita a Londra e negli Stati Uniti, MacElhone (scozzese, aviatore durante la Prima Guerra Mondiale) consacrò il proprio status inchiodando il proprio nome e quello del suo bar nel firmamento miscelato, grazie a ricette da lui inventate (o di cui furbamente si appropriò) e clientela da tappeto rosso.
L’Harry’s, che nasceva in origine come luogo di ritrovo per gli statunitensi trapiantati a Parigi, divenne passerella per personalità planetarie senza distinzione d’arte o mestiere. Coco Chanel e l’onnipresente Ernest Hemingway, Rita Hayworth e Ali Khan: al pianoforte del bar sedette George Gershwin per comporre Un Americano a Parigi, e l’ormai iconico indirizzo Sank Roo Doe Noo (5 Rue Daunou) viene declamato a un tassista da un sedicenne James Bond, che in Bersaglio Mobile ricorda di aver fatto visita da giovanissimo al bancone di MacElhone, dove perse “la verginità e il portafoglio, quasi contemporaneamente”. Divenuto punto di riferimento e ombelico sociale, l’Harry’s fu fucina della seconda opera di MacElhone, Barflies and Cocktails del 1927, che seguì il suo fortunato esordio come autore avvenuto con ABC of mixing cocktails del 1921, uno dei vangeli della miscelazione contemporanea.
Protetto con un muro di mattoni durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, poi rilanciato nello splendore degli anni ’60 dal figlio Andrew, che alla morte di Harry nel ’58 ereditò passione e azienda, per poi darle in lascito a sua volta alla terza generazione, oggi rappresentata da Isabelle, vedova del nipote diretto Duncan. Siamo alle soglie del secolo di attività, senza che l’aura di favola e glamour leggermente decadente sia stata scalfita dalla rivoluzione tecnologica: il neon è ancora là a ronzare, fedele allo stile di un tempo in cui Harry predicava la paternità di cocktail immortali come Boulevardier, White Lady, addirittura Bloody Mary, dai più invece attribuito al collega Fernand Petiot, che lavorò per lui. Di sua certa ideazione è il Monkey Gland, drink in fase di riscoperta negli ultimi anni, shakerato con gin, succo d’arancia, assenzio e granatina: in ABC of mixing drinks, MacElhone motiva il nome ispirandosi agli esperimenti del medico Serge Voronoff, che impiantava ai poveri francesi anziani i testicoli di scimmie in cattività, per favorire il testosterone. Se non è leggenda questa.