Terra d’amore, di sfide e di sogni. La raccontano così, da queste parti: la figlia dell’Imperatore germanico Ottone si invaghisce di un giovane e scappa con lui fino in Liguria: quando il severo padre li perdona e li richiama a corte, promette al genero tanta terra quanta ne avrebbe percorsa in tre giorni a cavallo. Aleramo, questo il nome dell’innamorato, si servì di un mattone (mon) per ferrare (ferrà) il destriero, e di fatto battezzare il Monferrato. Esistono decine di altre varianti sull’origine della denominazione, forse più plausibili, ma perché rovinare con la verità, la stupenda storia di questo territorio.
Territorio che vuol dire ovviamente vino, d’eccellenza e di racconto. Se le limitrofe Langhe in generale sono sinonimo di etichette cult, il Monferrino si distingue per il carattere di prodotti, ma soprattutto produttori lungimiranti e risoluti, con le carte in regola per poter rendere il proprio panorama un polo d’attrazione per l’enoturismo di qualità. Vibra di progetti ed entusiasmo il Grignolino, vitigno locale a bacca rossa che si traduce in una beva elegante e allegra, con un’eccellente predisposizione a una struttura di rilievo quando lasciato affinare; e altrettanto determinato e compatto è il Consorzio Colline del Monferrato Casalese, dal 2016 votato alla tutela e alla valorizzazione del lavoro di sessantadue produttori e tre cantine della zona, guidato da un gruppo di personalità esplosive e visionarie come il consigliere Franco Angelini.
Territorio che vuol dire sottosuolo, scoperto, curato e sfruttato al meglio fino a diventare tesoro dell’umanità intera. Il monferrino vive su porose lastre di pietra da Cantoni, materiale similissimo al tufo che contraddistingue, tra le altre, Napoli: ma mentre al sud l’origine è vulcanica, qui si parla di arenaria minerale che risale fino a 20 milioni di anni fa, quando non c’era altro che mare, come testimoniano i fossili di conchiglie incastonati nei massi. Tra le carezzevoli colline che fanno da tiara a gioielli come Cella Monte (finalista per il Borgo più bello d’Italia lo scorso anno), gli abitanti provvidero a scavare, verso la fine del diciannovesimo secolo: rigorosamente a mano vennero quindi realizzati gli infernot, celle sotterranee senza luce né aerazione, che grazie alle particolari caratteristiche di umidità e atmosfera vennero da subito adibite a cantine naturali, per custodire le bottiglie prodotte. Dal 2014, insieme al panorama vitivinicolo di Langhe e Roero, sono stati inseriti nella World Heritage UNESCO, e sono inquadrati in un disciplinare ad hoc.
Territorio che vuol dire cultura e arte, nell’architettura come nei piatti. Casale Monferrato è un angolo sereno che respira la bellezza austera di una regione protagonista nel passato e prontissima a esserlo nel futuro prossimo; passeggiare in centro significare sollevare il velo su perle che sono lì da una vita ma sonnecchiano poco pubblicizzate, probabilmente vittima di un momento storico che va a mille all’ora. Servono invece tempo e silenzio per poter godere del Teatro Comunale, inaugurato nel 1791: uno scrigno di stendhaliana statura, dove pagine d’amore e lirica sono state dipinte, sul palco e sulle pareti fino allo strepitoso lampadario. Serve pazienza per contare la nervature del Duomo di Sant’Evasio, per arrampicarsi con gli occhi su per le architravi all’ingresso, per scalare le fasce violacee del colonnato all’interno. Serve mente libera per potersi concedere al sapere amorevole di una cucina che riempie animi e voglie: battuto di carne, vitello tonnato, agnolotti, bonet, ricette antiche che hanno resistito ai secoli e al gourmet, per portare in tavola tradizione e memorie.
Territorio che vuol dire orgoglio di un prodotto minuto e celebre, esportato ormai fino ai confini del mondo e ancora ispirato ai valori e alle tecniche di centocinquanta anni fa. Casale Monferrato è infatti sede storica dei Krumiri Rossi, i biscotti simbolo di questo spicchio di Piemonte e fiero esempio di eccellenza italiana ovunque: burro, farina, uova, vaniglia e zucchero. Diciotto minuti a trecento gradi in forno, null’altro se non l’artigianalità inestimabile del lavoro manuale, con cui la famiglia Portinaro declina la tradizione di questa bottega in centro, rilevata nel 1953. L’impasto è zigrinato con l’unico macchinario presente in laboratorio, l’estrusore, poi ogni biscotto viene piegato a mano per ricalcare la forma dei baffi di Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, così omaggiato dal fondatore della pasticceria Domenico Rossi. La mitica scatola di latta rossa è l’ultima pennellata di un quadro senza tempo.
Il Monferrino perdona chi non si sofferma e accoglie chi vuole conoscerlo, adagiato sonnacchiosamente sul Po’ che qui si snoda flessuoso. È la scommessa dei suoi abitanti che in questa regione credono, e il rischio che chi è in cerca di scoperta dovrebbe correre per riempire se stesso di ricchezze da assaggiare e ascoltare. Basta una giornata da apprezzare in auto, virando tra vigneti e muratura per perdersi nelle fotografie dei giochi di luce. Così sì che si capisce perché qualcuno lo aveva percorso tutto, a cavallo, per amore.