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Le tariffe più basse d’Europa: 85 centesimi al giorno per famiglia. Le tariffe italiane per il servizio idrico sono le più basse d’Europa. In media una famiglia di tre persone con un consumo annuo di 180 metri cubi spende 307 euro all’anno, 25,6 euro al mese: quanto il costo di una tazzina di caffè al bar al giorno (85 centesimi). Si tratta dello 0,9% della spesa media mensile di una famiglia. Per lo stesso servizio in Spagna si spendono 330 euro all’anno, in Francia 700 euro, in Austria, Germania e Regno Unito 770 euro. Dei 307 euro italiani, solo 143 euro riguardano il servizio di acquedotto. Il resto serve per pagare fognature e depurazione. Quindi, per avere acqua potabile in casa, una famiglia italiana spende circa 40 centesimi al giorno. Tutto questo non ha impedito, tuttavia, la sedimentazione nel tempo di tassi di morosità molto più elevati di quelli di energia elettrica e gas: 3,8 miliardi di euro di crediti scaduti, di cui 1,1 miliardi da oltre 24 mesi.

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Allo stesso tempo siamo il Paese europeo con il più elevato consumo pro-capite di acqua in bottiglia, e addirittura il secondo al mondo. Il 61,8% delle famiglie italiane acquista acqua minerale e il consumo medio è pari a 192 litri all’anno per persona. In media ogni famiglia italiana spende 234 euro all’anno per l’acqua in bottiglia. Del resto, il 31,2% della popolazione non si fida dell’acqua che esce dal rubinetto della propria abitazione: una percentuale che sale nettamente al Sud (si arriva al 60,4% in Sicilia), ma che aumenta ovunque nel caso di allarmi connessi alla potabilità (si pensi ai casi di acqua contenente arsenico).

 Siamo un Paese ricco di acqua, ma ne sprechiamo quantità enormi. Le nostre infrastrutture idriche sono carenti, obsolete e inadeguate. Le perdite di rete sono pari al 31,9% e ciò costringe ad aumentare il prelievo di acqua alla fonte impoverendo la risorsa ed esponendo alcuni territori a cronici disservizi: l’8,9% della popolazione italiana denuncia interruzioni di erogazione, con punte del 29,2% in Calabria. Anche in questo caso il confronto con i partner europei è impietoso: in Germania le perdite di rete sono pari al 6,5%, in Inghilterra e Galles al 15,5%, in Francia al 20,9%. Il 20% delle acque reflue viene smaltito senza essere depurato, finendo per inquinare mari, fiumi e laghi del Belpaese. Proprio per la mancata depurazione delle acque reflue abbiamo già avuto due condanne in sede europea. Una quota consistente di popolazione (il 15%, con punte del 22% nel Mezzogiorno) non è allacciata ad alcuna rete fognaria e il 30% non è collegato a un impianto di depurazione. Anche nei Comuni capoluogo il 10% della popolazione non è servito da depuratore. Rischiamo di pagare multe salate per il mancato adeguamento degli scarichi dei nostri agglomerati urbani, ma soprattutto sono a rischio la salute dei cittadini, l’ambiente e l’economia turistica.

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A vent’anni dalla riforma che ha introdotto il Servizio idrico integrato (legge Galli del 1994), la gestione dell’acqua rimane caratterizzata da contraddizioni e paradossi che solo oggi, con l’affidamento del compito di regolazione all’Autorità per l’energia elettrica e il gas, possono entrare nell’agenda delle priorità del Paese e si possono cominciare ad affrontare. Il servizio idrico in Italia fa capo a una platea eterogenea di soggetti gestori. Sono più di 300, con una grande variabilità di dimensioni e natura giuridica. Si va dal gestore di un solo Comune di 500 abitanti all’Acquedotto Pugliese (100% di proprietà della Regione) che serve 4 milioni di abitanti. L’11% dei Comuni se ne occupa direttamente «in economia» e non tramite un gestore vero e proprio. Un ulteriore 19% degli enti locali ha una gestione «salvaguardata» risalente a prima della legge Galli. Mancano big player industriali capaci di andare anche sui mercati esteri, come fanno le grandi aziende francesi. Da noi la presenza dell’impresa privata nella gestione dei servizi idrici, assoluta protagonista nel Regno Unito e maggioritaria in Francia e Spagna, è confinata a un ruolo marginale.

 Investimenti: solo il 30% di quanto spende il Regno Unito. Per recuperare il terreno perduto, rimettendo a posto acquedotti colabrodo e realizzando reti fognarie e impianti di depurazione delle acque reflue adeguati, servono investimenti rilevanti. Anche da questo punto di vista il confronto con l’Europa è preoccupante. In Italia si investe ogni anno l’equivalente di 30 euro per abitante, in Germania 80 euro, in Francia 90 euro, nel Regno Unito 100 euro. Si stima che, per riportare il livello delle infrastrutture idriche italiane in linea con gli standard europei, bisognerebbe investire 65 miliardi di euro in trent’anni: una cifra ingente, equivalente ad esempio a oltre 7 volte il costo della tratta internazionale della linea ferroviaria Torino-Lione tra Francia e Italia.

 Questi sono i risultati del 4° numero del «Diario della transizione» del Censis, che ha l’obiettivo di cogliere e descrivere i principali temi in agenda in un difficile anno di passaggio attraverso una serie di note di approfondimento diffuse nella primavera-estate del 2014. +info: www.censis.it

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