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La bellezza di oltre duecento anni è trascorsa, da quando per la prima volta qualcuno si prese la briga di spiegare cosa volesse dire quella parola così eccentrica e colorita. Ma resta impossibile poter davvero spiegare la magia nascosta tra gli ingredienti di un drink perfetto. Oggi è il World Cocktail Day, e ne approfittiamo per ripercorrere il rocambolesco itinerario del bere miscelato, rispolverando le ricette più iconiche.

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La storia è nota ai più, per quanto ancora cosparsa di una intrigante patina di dubbio. Il termine cocktail compare di per sé intriso di oscurità circa la sua origine: largo è il riferimento al gallo (in inglese cock, appunto), la cui coda (tail) multicolore potrebbe aver ispirato la dicitura, stanti gli strati di diverse tonalità che un bicchiere, soprattutto in tempi in cui le tecniche di miscelazione latitavano, arrivava a contenere. Non a caso il re del pollaio è considerato il simbolo dei bartender, e non è raro vederne spille o rappresentazioni in bar e locali.

I francesi, che in quanto tali tengono giusto un po’ a rivendicare la paternità delle cose, specialmente quelle che non sono loro, guardano invece al farmacista Peychaud, stabilitosi a New Orleans e poi padre dell’omonimo bitter (essenziale nel Sazerac, insieme a cognac e assenzio) come genitore del vocabolo. Che deriverebbe da coquetier o coquetelle, ovvero tazza, la stessa in cui il dottore versò del brandy per creare una prima idea di mixology. Dall’altra parte del mondo, in Messico, si arriva addirittura a raccontare di Coqtel, dalla straripante bellezza, figlia di un sovrano azteco che tramite lei servì una bevanda miscelata a un conquistador, in segno di pace: probabilmente un progenitore dei rinfrescanti e pericolosamente beverini Margarita (tequila, succo di lime e triple sec) e Paloma (tequila, succo di lime e soda al pompelmo), stendardi del bere locale.

Prima definizione della parola “cocktail” – 1806

Nel caos dell’origine della definizione, c’è almeno certezza sul primo documento ufficiale dove è possibile ritrovare la parola cocktail: una pagina del Balance and Columbian Repository, giornale legato ai federatisti, che nel 1806 pubblicava un trafiletto in risposta alla domanda di un lettore. Era il 13 maggio, data per questo assurta negli anni a celebrazione ufficiale per le composizioni alcoliche, così definite all’epoca: “Un cock-tail, è una bevanda rinvigorente composta di qualsiasi distillato, zucchero, acqua e bitter. Per i più attenti, null’altro che l’elenco degli ingredienti di un Old Fashioned, il classico più bevuto al mondo, ottenuto appunto con whiskey, zucchero, bitter d’Angostura e soda.

Al di là della rudimentale ricetta, è apprezzabile il prosieguo della definizione, che etichetta la miscela come “eccellente in sede di elezioni, perché rende il cuore sfrontato e coraggioso, e alleggerisce la mente”. Chiosa di rara eleganza: “Pare sia molto utile per i candidati Repubblicani, perché chiunque riesca a deglutire un bicchiere di questo intruglio, può sopportare qualsiasi altra cosa”. Già note erano dunque le potenzialità destabilizzanti (e comunque non politicamente schierate) di un buon drink, ben meno le misure e gli ingredienti dei suoi componenti.

Frederic “Ice King” Tudor

Il secolo proseguì sulla fredda e tanto attesa scia del ghiaccio, che iniziò ad essere commerciato solo intorno ai primi decenni dell’800, quando il buon Fredric Tudor accettò di indebitarsi pur di realizzare la sua visione: nel 1816, dalla nativa Boston di cui fu soprannominato Ice King, arrivò a trasportare ghiaccio a Cuba, nel 1833 aveva già implementato il taglio meccanico dei cubetti. La possibilità di raffreddare le bevande investì la cultura del bere miscelato, che andò arricchendosi e raffinandosi, approfittando delle prime personalità influenti del settore: Jerry Thomas, il Professore, verso la fine dell’800 era considerato come l’oste assoluto, ormai emancipatosi dal saloon delle terre selvagge per calcare i banconi di bar d’albergo e location di lusso, ed essere conseguentemente retribuito al pari di ingegneri e comandanti di navi.

Sua la firma sul primo manuale professionale, che al netto di ovvie migliorie apportate nel tempo anche grazie al progresso tecnologico, con le sue ricette rimane un caposaldo per la formazione dei miscelatori attuali. E a lui si deve anche l’invenzione del Blue Blazer, cocktail estremamente (e inutilmente) spettacolare, realizzato lanciando del whiskey incendiato tra due apposite tazze di rame: la maggior parte delle rappresentazioni di Thomas lo ritraggono per l’appunto nell’atto, probabilmente circondato da spettatori ipnotizzati (o già pronti a chiamare i pompieri).

Jerry Thomas mentre prepara un Blue Blazer

Le prime luci del Novecento, nonostante la galoppante corsa verso la modernità, saranno in realtà nefaste per il mondo del bere, che partorisce classici immortali (ce ne sarebbe una lista infinita, noi segnaliamo i superlativi Last Word, con gin, maraschino, Chartruse verde e succo di lime, e Sidecar, con cognac, tirple sec e succo di limone) ma soffre incatenato alle restrizioni imposte dal Volstead Act: nel 1919 viene varato il Noble Experiment, il Proibizionismo, che vieta di produrre, vendere e consumare alcool negli Stati Uniti con risultati disastrosi. Sono infatti i moonshiners, distillatori illegali (così chiamati perché operavano alla luce della luna) a fare la voce grossa, alimentando la leggenda degli speakeasy (bar fuorilegge nascosti nei sottoscala o nei retrobottega, tornati in auge al giorno d’oggi) e di personalità poi ammantate di leggende, come Al Capone, oltre a fomentare lotte di mafia e creare prodotti di infima qualità.

Si dovrà aspettare il 1933 per assistere alla fine dell’esperimento e tornare alle abitudini da bancone, nel frattempo arricchitesi della mitica Tiki Culture, figlia di intuizioni di figure leggendarie come Don Beach e Trader Vic, e nuove nozioni: per sfuggire ai vincoli della proibizione, gli statunitensi si imbarcavano infatti in crociere ai Caraibi o a Cuba, con il solo scopo di affogare nel bere le proprie mancanze, e una volta rientrati alla normalità furono numerosissimi i locali che si ispiravano a quei paradisi e quegli stili di miscelazione. Cocktail come lo Zombie (mix di tre tipologie di rum, falernum, succo di lime e altri intrugli) e il mitico Mai Tai (eccellente in lingua tahitiana, fatto con rum, orzata, succo di lime, triple sec) sono ancora oggi estremamente apprezzati, se fatti ad arte.

Don Beach

Seguiranno decenni di adattamento ed evoluzioni, durante i quali i palati e le ricette andranno di pari passo con gli usi e le mode: colori e strutture dei cocktail vivranno l’influenza dei figli dei fiori, della Disco Music (come l’Harvey Wallbanger, con vodka e Galliano, o il dolcissimo Pink Squirrell, con crema di nocciola e panna), dei temibili anni ’90 (il controverso Cosompolitan di Sex and the City, con vodka, succo di cranberry, triple sec e succo di limone) fino al rinascimento della mixology moderna, che si candida a divenire punto di riferimento nell’ospitalità del domani.

Il viaggio dei cocktail ha saputo resistere agli impedimenti imposti dalla politica, al consumo smodato e inconsapevole che mortificava la qualità, agli intrugli fluorescenti che cavalcavano il benessere economico di fine millennio; ha accettato di affidare i comandi a un gruppo di bartender illuminati, che nel 1951 fondarono la International Bartenders Association (IBA), oggi presieduta dall’italiano Giorgio Fadda e custode della lista dei drink imprescindibili; le tappe si sono moltiplicate, andando a toccare ogni curva del mondo, dall’Asia del Singapore Sling (ricetta chilometrica e oscura, perché pare inventata da uno sguattero analfabeta che quindi non sapeva comunicarne le dosi) e del Bamboo (sherry e vermouth secco), al Tommy’s Margarita a stelle strisce (variante sul classicissimo firmata da Julio Bermejo di San Francisco, con sciroppo d’agave al posto del triple sec).

Ernest Hemingway che si prepara da bere

Fermandosi a Cuba per il Daiquiri (rum, zucchero, succo di lime) e il Mojito (rum, zucchero, menta, soda), a Firenze per l’intramontabile Negroni (gin, Campari e vermouth dolce); atterrando a Hollywood nel Vesper Martini di James Bond (agitato non mescolato, con gin, vodka e Lillet Blanc, sostituto dell’oggi introvabile Kina Lillet), e vincendo Pulitzer e Nobel nelle pagine di Ernest Hemingway, che preso dalle sue idiosincrasie si preoccupava eccessivamente di un fantomatico diabete, arrivando a creare il famigerato Papa Doble (un Daiquiri con meno zucchero, succo di pompelmo e maraschino). E chissà dove ancora arriveranno, i cocktail, nel prossimo futuro.

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